Klopp ha mantenuto la sua promessa

Perché la Champions del Liverpool è un trionfo costruito dal tecnico tedesco.

In qualunque modo la vediate, Jürgen Klopp è il Liverpool. Oltre 1300 giorni hanno saldato alla perfezione anima dell’allenatore e corpo della sua squadra, in una sovrapposizione perfetta che fa, del Liverpool, un organismo che pensa e agisce in accordo agli impulsi cerebrali del suo demiurgo, un collettivo che trasforma una visione astratta in esecutiva, tangibile. Arrivare a incarnare lo spirito, l’identità di un club non è mai facile, soprattutto se quel club – che a Madrid ha vinto la sua sesta Champions League della storia, perciò ce ne sono state cinque prima – ha una tradizione forte, riconoscibile, indipendente da un nome, da un’epoca. Quella di oggi, impossibile negarlo, ha le sembianze sfrenate di Klopp.

 

Lo sanno bene i giocatori, che nel pieno delle celebrazioni del Wanda Metropolitano lo trascinano sotto la curva occupata dai tifosi Reds e se lo caricano sulle spalle, e Klopp è lì, sospeso per aria, sorretto dal gruppo, le gambe penzoloni e un sorriso che non potrebbe essere più sincero. Si godono, lui e tutto il popolo di Liverpool, un successo meritato, figlio di un lavoro che va ben oltre una straordinaria stagione – perché ottenere 97 punti in Premier è un risultato strabiliante, e se non sono serviti a vincerla è solo per il caso eccezionale di una concorrente che ne ha raccolti 98 – e che occupa lo spazio temporale di tre stagioni e mezzo. Un lavoro portentoso, e comunque dagli esiti tutt’altro che scontati.

Jürgen Klopp fa parte di una categoria di allenatori che ha spostato l’attenzione sulla panchina: un tecnico-star, le cui dimensioni mediatica ed emotiva vanno oltre un semplice piano partita o un’intuizione tattica. Il suo modo di intendere il calcio affascina e viene studiato, interpretato e analizzato sotto tutti i punti di vista, la sua strategia comunicativa ha un che di magnetico e suadente, il modo in cui vive le gare, entra in diretto rapporto con il pubblico, il coinvolgimento di cui è protagonista, sono tratti di una figura che travalica l’aspetto puramente tecnico del gioco. Rispetto ad altre celebrities del suo settore, però, a Klopp è mancata negli anni la continuità di vittorie, e, anche se il suo palmarès pre-Madrid era tutt’altro che deserto – due campionati, una coppa nazionale e due Supercoppe in Germania – l’immagine che ne derivava era quella di un allenatore, essenzialmente, perdente. «Perdere una terza finale di Champions sarebbe un duro colpo per lui», aveva detto Mourinho, che più di ogni altro tecnico al mondo soppesa la riuscita di una stagione in base a quanto si è vinto.

Liverpool e Jürgen Klopp, perciò, si sono ritrovati insieme al momento giusto. I Reds non vincevano più nulla da tre anni, la Fa Cup da nove, la Champions da dieci, della Premier meglio non parlarne. Nell’ottobre del 2015, nel corso della presentazione alla stampa, il tecnico tedesco aveva promesso: «Tra quattro anni penso che avremo vinto un titolo. Ne sono abbastanza sicuro. Se non sarà così, il prossimo potrebbe essere in Svizzera». Non c’era nulla di scontato in quella dichiarazione, per la situazione sportiva in cui versava il Liverpool all’epoca – subito in finale di Europa League e League Cup, ma ottavo in campionato. Klopp si era dato una missione, e un limite di tempo entro il quale realizzarla.

Giocare la seconda finale di Champions League in due anni, arrivarci da favoriti, vincerla, sono conquiste che il Liverpool ha costruito negli anni. Oggi i Reds sono una superpotenza del calcio mondiale, hanno il potenziale per vincere finalmente la prima Premier – nel senso moderno del termine – della loro storia, ripetersi in Champions, essere competitivi su più fronti. In tempi in cui le società più ricche fanno disperatamente a gara per costruirsi attraverso i titoli una nobiltà mai acclarata – Psg, Manchester City – o perduta nel tempo – Manchester United, le stesse milanesi – il Liverpool è arrivato sul tetto d’Europa con un progetto chiaro e a lungo termine, dove le risorse economiche hanno ovviamente fatto la propria parte – oltre 400 milioni di euro spesi solo in cartellini sotto la gestione Klopp – ma senza che forzassero i tempi. La pazienza, in qualche modo, ha reso possibile il percorso intrapreso dal Liverpool.

Della squadra che ha battuto il Tottenham a Madrid solo in cinque erano presenti nella prima partita con Klopp in panchina, curiosamente sempre contro gli Spurs. In quella gara dell’ottobre 2015 a White Hart Lane solo Origi e Milner hanno visto il campo al Wanda Metropolitano, ma da subentranti; gli altri tre, anche se fanno tuttora parte della squadra, non ne sono più protagonisti – Mignolet, Moreno, Lallana. Alcune partenze, poi, davano l’impressione che la squadra si stesse indebolendo – Sterling e Coutinho su tutti. Klopp è stato bravo a responsabilizzare i suoi uomini, individuare i giocatori utili al suo corso, potenziare la squadra anno dopo anno. I due migliori nella finale di Madrid, tra i Reds, sono arrivati soltanto nell’ultimo anno e mezzo: Alisson e van Dijk. La spesa di quasi 150 milioni per due giocatori – l’olandese è il difensore più pagato della storia, il brasiliano lo è stato tra i portieri per un breve periodo – sembrava una stortura di mercato tipica dei club inglesi; oggi, invece, nessuno mette più in discussione la bontà delle operazioni, sottolineata anche dai 21 clean sheet (su 38, prima squadra in assoluto) del Liverpool in Premier – oltre alle due nelle gare decisive della Champions, nel ritorno contro il Barça in semifinale e in finale.

Più in generale, Klopp ha dato alla sua squadra una convinzione superiore, ben illustrata dall’incredibile rimonta ad Anfield contro il Barcellona: «Tra l’andata e il ritorno contro il Barcellona direi che nessuno ha creduto in questa squadra più della squadra stessa», ha ricordato. Anche la finale di Kiev, persa contro il Real Madrid più per errori individuali che per un predominio del gioco degli avversari, ha rappresentato un indiscutibile momento di crescita: «Eravamo in coda, all’aeroporto, per tornare a casa, delusi e a testa bassa, con tante sensazioni in testa. Ma il pensiero era: torneremo».  Come non ha mancato di sottolineare prima della partita, Klopp sapeva che a Madrid sarebbe dovuto arrivare il momento dei suoi giocatori: «Non sono mai arrivato in finale con una squadra migliore di questa. Al potenziale di questa squadra abbiamo aggiunto il miglior atteggiamento che ho mai visto. Ecco perché siamo qui. Non c’è paragone tra questo gruppo e quello dell’anno scorso. L’anno scorso volevamo arrivare a Kiev. Quest’anno vogliamo vincere la finale. C’è una grossa differenza nella nostra mentalità».

Klopp stesso non ha nascosto il suo sollievo per aver evitato di perdere la settima finale di fila: «Ho un sacco di medaglie d’argento, ora ne ho una d’oro. È importante che ora si smetta di parlare sempre delle mancate vittorie». Il piano gara di Madrid è stato ovviamente agevolato da un calcio di rigore a favore fischiato dopo soli 22 secondi, trasformato da Momo Salah – che si era caricato in vista della finale guardando la foto della scorsa, di finale, marchiata dall’infortunio che lo aveva tolto dai giochi già nel primo tempo. Ma nel corso della partita il Liverpool ha mostrato una non comune capacità di gestire i momenti chiave del match, rendendolo poco divertente, forse, ma piegandolo alle esigenze delle circostanze – a Madrid c’erano oltre trenta gradi e due squadre che non scendevano in campo da tre settimane, un’enormità, abituate come sono a giocare più volte nella stessa settimana. La maturità di squadra era l’ultimo passo di crescita che si chiedeva al Liverpool, e la vittoria della Champions ne è stata la conseguenza più logica. «Questo è solo l’inizio per questo gruppo, i loro migliori anni devono ancora arrivare». Meglio credere a certe promesse di Klopp.

 

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