La vittoria della Grecia agli Europei 2004 è stata un evento irripetibile

Il trionfo di una squadra mediocre, ma con un'identità fortissima.

Tutti i giornalisti greci chiamati a raccontare la vittoria della Nazionale ellenica a Euro 2004 hanno sempre sottolineato come il loro Paese non sia mai stato unito – non si sia mai sentito unito – come nei giorni del trionfo in Portogallo. La Grecia è frammentata e frammentaria, per morfologia ma anche per composizione etnica e sociale: ci sono più di 6000 isole di cui solo 227 abitate, eppure l’80% del territorio è prettamente montuoso; la zona Nord della parte peninsulare si sviluppa intorno a Salonicco, una città con una secolare identità macedone, che si sente e si professa profondamente diversa dagli altri due grandi centri urbani e culturali del Paese, Atene e il Peloponneso. Il calcio di club acuisce queste differenze: ogni zona e ogni gruppo hanno il proprio club di riferimento, ad esempio il PAOK – vincitore del titolo 2018/19 – è stato fondato nel 1926 dagli esuli greci a Costantinopoli, e ha la stessa discendenza dell’AEK Atene; il Panathinaikos e l’Olympiakos hanno invece un dna ellenico, legato alla tradizione polisportiva ed olimpica della capitale.

In un contesto del genere è inevitabile che si accendano e si alimentino delle rivalità radicate, che vanno ben oltre il terreno di gioco. Eppure nell’estate del 2004 tutti remavano nella stessa direzione: in un articolo sull’Independent, Konstantinos Lianos ha scritto che «sembra passata un’eternità da quando un Paese diviso come il nostro, nel calcio e non solo, è riuscito a dimenticare tutte le differenze, anche se solo per un mese. Per gli americani, il 4 luglio è l’Independence Day. Noi greci, invece, festeggiamo ogni anno la vittoria più inattesa nella storia del calcio. E un sentimento di unità che non abbiamo mai più ritrovato».

Essen è una città della Germania Nord-Orientale, si trova a metà tra Dortmund e Düsseldorf, non troppo distante dal confine olandese. Qui un ristoratore di origine greca ha aperto un locale di cucina tipica ellenica, e accanto alla struttura ha voluto costruito un altare in marmo dedicato a uno dei suoi concittadini più famosi: Otto Rehhagel, il commissario tecnico della Grecia a Euro 2004. In realtà non è l’unico monumento che raffigura l’allenatore tedesco: a Brema c’è una statua che lo “elegge” sovrano della città, perché dal 1981 al 1995 ha guidato il Werder e ha vinto due edizioni della Bundesliga e una della Coppa delle Coppe. Anche a Kaiserslautern avrebbero dei validi motivi per innalzare un monumento a Rehhagel: nel 1997 ha centrato la promozione in Bundesliga con la squadra locale, nel 1998 ha vinto il campionato da neopromossa. La prima volta nella storia del massimo campionato tedesco a girone unico. L’ultima volta nelle cinque leghe top in Europa.

Un articolo di These Football Times definisce la vittoria della Grecia nel 2004 come «L’impresa tattica del decennio». Solo che l’accezione è decisamente negativa, nel testo ci sono dei passaggi molto critici sulla Nazionale di Rehhagel, che viene descritta come «l’antitesi di tutto ciò che è positivo per il gioco del calcio». Un articolo del Telegraph pubblicato subito dopo la vittoria in Portogallo si apriva con la frase «Una lacrima scorre sulla faccia del bel gioco». In un’intervista del 2015, Rahhagel ha spiegato che le sue scelte furono frutto di un puro ragionamento pragmatico, non ideologiche, imposte dal materiale umano che aveva a disposizione: «Il discorso sulla Grecia che giocava male non mi ha mai disturbato. Dove c’è scritto come si deve giocare a calcio? Io ho allenato la mia squadra in base alle caratteristiche dei calciatori che c’erano. Se avessi avuto Xavi, Iniesta e Messi, il nostro stile sarebbe stato sicuramente più offensivo. La verità è che abbiamo lavorato in modo intelligente sul campo, mentre gli altri ci hanno sottovalutato».

Traianos Dellas fu eletto miglior difensore del torneo, giocò tutte le partite e segnò il “silver gol” della semifinale contro la Repubblica Ceca (Alex Livesey/Getty Images)

La Grecia campione d’Europa è stato un evento di incastri perfetti e probabilmente irripetibili, un improvviso blackout del potere calcistico precostituito sfruttato alla perfezione da una squadra con un’identità fortissima, assemblata senza fare compromessi con l’estetica, costruita per essere esclusivamente funzionale. L’allenatore e i giocatori hanno creato e alimentato una sorta di nuova cultura brutalista, in contrasto con le linee nobili e sinuose dell’arte e dell’architettura greca, con la profonda ricerca del pensiero filosofico e scientifico, con la bellezza dei paesaggi. Con tutto ciò che da sempre identifica la cultura ellenica. Il fatto che Rehhagel sia stato il primo allenatore straniero a imporsi in un grande torneo con una Nazionale europea non può, non deve, passare in secondo piano. Ancora oggi è l’unico a esserci riuscito. Evidentemente il calcio greco aveva bisogno di un condottiero straniero, dotato di una sensibilità straniera, esterna, per individuare le sue vere caratteristiche, per esaltarle, per capire come e su cosa lavorare. Distruggere prima che creare: la Grecia di Rehhagel ha stretto un patto con il diavolo che ha rotto un millenario patto con la storia. E così è riuscita a fare la storia.

Anche per questo, forse, l’incantesimo di Rehhagel non è riuscito a rinnovarsi con la stessa forza dopo la festa allo stadio Da Luz e in tutte le zone della Grecia. La Nazionale ellenica ha raccolto un solo punto nella Confederations Cup 2005, ha fallito l’accesso ai Mondiali del 2006, e solo dopo una profonda ricostruzione è riuscita a qualificarsi per gli Europei 2008 e alla Coppa del mondo 2010. In quei sei anni il roster è stato completamente rivoluzionato, solo quattro campioni d’Europa hanno partecipato ai Mondiali sudafricani – Karagounis, Charisteas, Katsouranis, Seitaridis. Quasi come se lo stesso Rehhagel, nel frattempo, si fosse reso conto che il suo gruppo non aveva altre possibilità, non sarebbe potuto andare oltre una sola impresa, per quanto enorme, inaspettata. Una consapevolezza evidentemente condivisa con gli stessi calciatori, e con gli operatori di mercato: la vittoria dell’Europeo 2004 non servì a nessun giocatore per migliorare il proprio status, praticamente tutti gli elementi della rosa erano inadeguati ai palcoscenici più importanti – Seitaridis accettò l’offera del Porto campione d’Europa ma non riuscì a imporsi; Charisteas rimase un’altra stagione con il Werder Brema e poi si trasferì in Olanda, all’Ajax, prima di scomparire rapidamente; il capitano Zagorakis firmò con il Bologna dopo l’Europeo, e tre anni dopo la finale contro il Portogallo annunciò il suo ritiro.

Otto Rehhagel dopo la vittoriosa finale con il Portogallo. Dopo l’addio alla Grecia, il tecnico tedesco ha allenato solo l’Hertha Berlino per metà stagione, nel 2012. È stata la sua ultima esperienza in panchina (Adrian Dennis/AFP/Getty Images)

Il confronto con le altre grandi vittorie inattese del calcio medio-contemporaneo, quella della Danimarca nel 1992 e del Leicester nel 2016, è eloquente: i danesi che trionfarono agli Europei potevano contare su atleti affermati e riconoscibili a livello internazionale come Schmeichel e Brian Laudrup; nella squadra di Ranieri, c’erano calciatori di grande talento, destinati a una carriera luminosa dopo il successo in Premier League con le Foxes – Kanté e Mahrez su tutti, ma anche Jamie Vardy ha tenuto alti standard di rendimento pur essendo rimasto a Leicester. La Grecia di Rehhagel è stata un’esperienza brevissima, circoscritta, e per questo ancora più stordente.

Probabilmente, quell’estate di 15 anni fa è l’ultimo ricordo dolce della Grecia: poche settimane dopo il trionfo di Lisbona iniziarono i Giochi Olimpici di Atene, ma già il 15 novembre successivo il governo socialista ammise che il rapporto deficit/Pil non era mai stato inferiore al 3% dal 1999, come espressamente richiesto dalle norme comunitarie per entrare nell’euro. Il 29 marzo del 2005, il nuovo esecutivo conservatore di centrodestra varò le prime misure di austerity, tra cui l’incremento delle tasse su alcol e tabacco e un aumento dell’Iva dal 18% al 19%. La crisi economica, aggravata dalle spese per le Olimpiadi, mise in ginocchio il Paese e ancora oggi fa sentire le sue ripercussioni sul mercato interno ed europeo, e sugli equilibri politici dell’Unione. Nell’estate del 2013, la cancelliera Angela Merkel ha cercato di migliorare i rapporti tra Germania e Grecia – ovviamente compromessi dalla crisi – inviando proprio Otto Rehhagel in visita a quello che era diventato il suo Paese d’adozione. Erano passati tre anni dall’addio del tecnico tedesco alla Nazionale ellenica. Fu una mossa controversa, per non dire contestata: molti giornali greci descrissero il viaggio di Rehhagel come una manifestazione puramente populista della Germania per recuperare consensi; addirittura un deputato del partito indipendentista greco consigliò all’ex ct di non tornare ad Atene, così da «evitare di essere respinto da milioni di nuovi poveri che l’hanno amato così tanto». In certi casi, persino l’ultimo eroe in grado di unificare davvero un Paese finisce per essere battuto dal tempo che passa, che cambia le cose.