In piscina con Oliver Sacks

Una storia sullo scrittore (a Torino) e la sua necessità di stare a contatto con l'acqua, in uno straordinario rapporto simbiotico.

Le richieste, non negoziabili, erano state quattro. Una stanza d’albergo il cui impianto di aria condizionata assicurasse il raggiungimento di una temperatura accostabile a quella del pianeta Urano, in inverno, e che fosse collocata in un edificio dove nessuno, nelle ultime tre generazioni, avesse acceso una sigaretta. Una visita, possibilmente guidata da qualcuno in grado di farlo, al Museo Lombroso. Un sopralluogo, non necessariamente guidato, all’androne dell’ultimo palazzo in cui visse Primo Levi. La disponibilità, su base quotidiana, di una piscina olimpionica. Con preghiera di prendere l’aggettivo alla lettera.

Con una qualche fatica, e gradi variabili di soddisfazione, le prime tre erano state esaudite. Benché all’inizio degli anni Duemila – con i Giochi olimpici invernali del 2006 ancora allo stato di Logo & Mascotte – la ricettività alberghiera di Torino e le tecnologie connesse mantenessero una gradevole impronta sabauda, la direzione dell’albergo aveva fatto quanto promesso. Nella stanza dell’illustre ospite, che veniva ad aprire con gli stessi shorts e la stessa T-shirt con cui nonostante i segni inequivocabili di una nevicata molto recente affrontava il mondo esterno, ci si poteva trattenere giusto il tempo di una lapidaria comunicazione di servizio. Con evidente sollievo sia del latore di quella comunicazione (nella circostanza, io) sia, soprattutto, dell’ospite di cui sopra.

Anche la visita al Museo Lombroso – in teoria chiuso, per altrettanto teorici lavori di ristrutturazione – si era svolta senza incidenti. Senza che gli incidenti venissero alla luce, cioè. Sistemato in tre stanze di un vetusto istituto universitario, lo studio dell’eminente criminologo era affidato a due personaggi dall’incerta qualifica professionale, ma che non passavano inosservati. Il primo era un omino minuscolo, seminascosto in un completo almeno due taglie più della sua, la cui funzione sembrava esaurirsi in un sorriso più o meno fisso e nel gesto, ossessivamente reiterato, di farci strada. Il secondo, che nonostante la magrezza estrema lo sovrastava di quasi un metro e aveva una spiccata somiglianza, sia fisica che vestimentaria, con professor Trifone Girasole – se conoscete Tintin –, avrebbe dovuto farci da guida. E, tanto per metterlo in chiaro, aveva esordito chiedendo a Oliver – Sacks – di cosa mai si occupasse in America, e quale motivo lo avesse spinto nella lontana Torino. Per fortuna, non avendo alcuna nozione di lingua inglese, lo aveva chiesto in italiano. E per fortuna anche maggiore, il nostro supposto interprete aveva le sue stesse difficoltà nella transizione da una lingua all’altra. Qualcuno dalla nave in fuga nella notte mi aveva gettato un salvagente, e mi ci ero subito aggrappato. Da quel momento in poi tutte le frasi di Girasole, in una versione molto libera, le avevo tradotte io. Senza che ce ne fosse bisogno, in realtà.

Del tutto indifferente alle delucidazioni, Oliver aveva ignorato la scrivania d’epoca sulla quale qualche spiritosone aveva appoggiato un finto manoscritto interrotto, e si era sistemato davanti alla vetrina che conservava i manufatti degli alienati. Estratto il taccuino, si era messo furiosamente a copiare gran parte di quanto un infelice aveva scritto sul camice del suo istituto, e a quel punto il pigolio di Girasole, potenzialmente esplosivo, si era disinnescato da solo. Era andata ragionevolmente bene anche a casa Levi. Stavolta Oliver aveva fatto qualche domanda – al portiere – ma, grazie alla rinuncia dell’interprete, e alla mia intromissione, delle risposte aveva avuto, di nuovo, un resoconto non precisamente fedele.

A sorpresa, gli unici problemi li aveva dati la piscina. Tanto per cominciare, non era stato facile trovarla. Non so oggi, ma allora l’unico impianto con i requisiti richiesti, a Torino centro, pare fosse un circolo non solo privato, ma talmente esclusivo che per poterci entrare avevamo dovuto procurarci le tessere di due soci –forse i soli, dal momento che in giro, a parte l’ometto in blazer piuttosto puntuto che ci aveva aiutato a strisciare le tessere e ora ci seguiva passo passo, non c’era assolutamente nessuno.

Era un ambiente quantomeno singolare, segnato da una sconfortante prevalenza del marrone, che dava anche all’immane vasca celeste un’inquietante luminescenza gialla. Non so cosa ci si debba aspettare da una struttura olimpionica scavata nelle viscere di un palazzo anni Settanta. Io non mi aspettavo niente, ma devo dire che la presenza, su un lato corto della piscina, di un baretto vagamente hopperiano mi aveva sorpreso. Mentre Oliver si cambiava mi ci ero comunque sistemato, ordinando, a giudicare dalla reazione della cameriera, qualcosa di sacrilego.

Prima di poter verificare se lo fosse veramente, ero stato raggiunto dall’ometto in blazer, agitatissimo. Il suo amico sta girando nudo, mi aveva sussurrato, deve assolutamente fermarlo. Con una sicurezza un tantino sospetta, gli avevo garantito che il mio amico mai avrebbe fatto qualcosa del genere. E stavo per insistere, quando Oliver era uscito dallo spogliatoio. Non era nudo. In compenso, sembrava una fantasia balneare anni Cinquanta, rivista da Wes Anderson. Aveva la cuffia in testa, e gli occhialini sulla fronte. Portava un inverosimile costume rosa antico a strisce diagonali blu, retto in vita da un cinturino. Sotto un braccio, un paio di pinne smisurate. Sotto l’altro, avvolto in un asciugamano che in un tempo molto lontano era stato bianco, qualcosa.

Il punto dello scandalo pareva fosse l’accappatoio del circolo. I soci dovevano indossarlo negli spogliatoi, e toglierlo solo al momento di entrare in acqua. Non erano ammesse eccezioni. Dica a quel signore di metterselo, mi sussurrava sempre più forte l’ometto. Non può, non ce l’ha, sussurravo io. Ma non può non averlo, sussurrava lui, è contro le regole. Ma perché sussurriamo, ho provato a sussurrare io, non ci sente nessuno. Non lo so, ha sussurrato lui, stravolto. Oliver intanto aveva calzato le pinne, si era sistemato gli occhialini, e stava trafficando con l’asciugamano. Molto avevo letto e molto sentito della sua passione per il nuoto, del suo bisogno dell’acqua. Ma erano parole che entrano a fatica nelle orecchie di chi è nato sul mare. Per me – per molti di noi – il nuoto è una tecnica che se necessario consente di spostarsi da un pontile a uno scoglio, punto. Per Oliver, evidentemente, era tutt’altro.

Non so cosa mi abbia stupito di più, nell’ora successiva. Forse che l’asciugamano proteggesse una tavoletta di sughero, alla quale Oliver ora si aggrappava per nuotare. Forse la lentezza irreale con cui quella strana creatura anfibia, che con pinne e tavoletta sarà stata lunga tre metri, percorreva avanti e indietro la piscina olimpionica, sollevando minuscole ondine. Forse l’improvvisa calma, l’assurda naturalezza di quel corpo così nervoso, fuor d’acqua. O forse quel sorriso, più accentuato a ogni passaggio. Che credo non fosse neanche un sorriso, solo un sintomo puramente fisiologico della felicità irresistibile con cui Oliver esplorava l’infelicità di tutti, riuscendo qualche volta a rischiararla, qualche volta a curarla. E – sempre – a raccontarla.

Dal numero 28 di Undici