Peter Sagan è il testimonial perfetto del nuovo ciclismo

Il libro di Giacomo Pellizzari sul ciclista slovacco, un atleta fenomenale ma anche un fenomeno di marketing.

Per quanto sia uno degli sportivi più importanti dei nostri tempi, Peter Sagan è uno dei corridori più divisivi del ciclismo. Un paradosso figlio della spiccata tendenza del campione slovacco a lasciarsi vedere, leggere, quasi conoscere. In un decennio (o quasi) di professionismo Sagan ha tenuto la porta spalancata su di se’, sulle proprie debolezze e soprattutto sulla propria maturazione. Dai comportamenti irriverenti, persino inaccettabili, del Sagan-ragazzino alla consapevolezza dell’uomo che un anno fa saliva sul podio mondiale per premiare in prima persona il proprio successore, la carriera di Sagan è stata una continua alternanza di successi e gesti pubblici. Eppure ogni gesto di Sagan, anche i più sentiti e genuini, ha finito con l’alimentare le accuse di chi vede nello slovacco soltanto un malato di protagonismo.

Peter Sagan non è un innovatore, è un campione straordinario che si inserisce nella storia dei suoi predecessori, ma li anticipa sul traguardo della narrazione di sé. Non è unico nemmeno qui, a dire il vero: Lance Armstrong e Bradley Wiggins, ad esempio, lo hanno preceduto di poco, ma con storie molto diverse. Sagan è rimasto sulle scene inevitabilmente visto che è nel pieno della sua carriera, ma anche consapevolmente, nel momento in cui si è reso conto di diventare un simbolo. Sagan è l’incarnazione a pedali del postmodernismo, un personaggio che più Jean Baudrillard avrebbe definito iperreale, ma che allo stesso tempo resta completamente entro i canoni che hanno sempre definito questo sport: la fatica, la scoperta, la partecipazione popolare, che non si vergogna di essere ancora “provinciale”; benché il ciclismo stia cercando di raccontarsi, forse solo di vendersi, in maniera differente.

Di questo iperSagan si occupa il nuovo libro di Giacomo Pellizzari, Generazione Peter Sagan, uscito nel bel mezzo del Tour de France per 66thand2nd. Non si tratta di una biografia, bensì un tentativo di approfondire il simbolo cui il ciclista slovacco è assurto. Peter Sagan in questo racconto non è più una persona, piuttosto un oggetto: diventa una campagna di marketing, parla in neolingua, decolla dai social network, è anticipato sul traguardo non dai suoi avversari ma dai suoi sponsor…. sino ad annodarsi nel vortice più bizzarro – che nel ciclismo non si vedeva dai tempi di Cipollini – quando ci si accorge che Sagan è egli stesso il proprio sponsor.

Sagan è oltre Sagan, più che postmoderno diventa il primo ciclista post-umano, definitivamente spersonalizzato, col rischio di trasformarsi in un listino prezzi ambulante, usato a misura di chi è pronto a «spendere un intero stipendio in maglie di lana merino o in caschetti aerodinamici». La persona svanisce nel momento in cui i suoi interlocutori non sono più altre persone, ma soltanto clienti. Peter Sagan è una figura divisiva quando si guarda al corridore, ma è la figura che riassume un’epoca se si guarda alla popstar. Se gli anni ’90 hanno avuto i Take That e le Spice Girls, i nostri anni hanno Cristiano Ronaldo e Peter Sagan: il pop e lo sport si annodano definitivamente, e il ciclismo torna protagonista sul mercato.

L’analisi di Giacomo Pellizzari è una lunga esplorazione di questo nuovo mercato, quella che sin dal sottotitolo è definita una “rivoluzione su due ruote”. A partire da Londra o da San Francisco, le grandi capitali dell’economia finanziaria, dove si guarda ormai da tempo al ciclismo come nuovo golf, lo sport dei manager pronti a versare cifre esorbitanti nel rinnovare bici ed abbigliamento, che qui diventano gear e outfit. Pronti soprattutto a spendere migliaia di euro per partecipare alle granfondo, per pedalare a fianco dei vip e soprattutto raccontarsi e pubblicizzarsi. Lo strumento di questa messa a consumo sono i social e le nuove app per ciclisti, è innanzitutto il selfie, esercizio universale che unisce il top-manager all’aspirante amatore.

Peter Sagan ha vinto tre edizioni consecutive dei Campionati del Mondo di ciclismo su strada: 2015, 2016 e 2017(Jeff Pachoud/AFP/Getty Images)

Sono in cima al Tourmalet. Arrivarci è stata una faticaccia. Eppure, appena sganciati i pedali, il mio primo pensiero non è quello di riprendere fiato e godermi la conquista. Bensì quello di condividere e postare in diretta una foto commemorativa dell’impresa. Credo che la superficialità dell’attimo social possa in realtà raccontare molto di più di un momento: se lo scatto è quello giusto, la storia che narra diventa più profonda. (…) Apro Instagram, carico la foto, la modifico con i filtri: aggiungo e tolgo saturazione, riduco e ingrandisco, aumento luminosità, contrasto, infine aggiungo l’effetto “vignettatura”. Tutto questo, mentre mi sforzo di pensare anche a un breve commento di accompagnamento e, soprattutto, a chi taggare.

Il ciclismo sovra-rappresentato di Sagan diventa l’ultra-rappresentazione dei ciclisti di tutti i giorni, dove la pedalata non esiste se non è immediatamente raccontata, condivisa, e soprattutto filtrata. La realtà scompare definitivamente. Quando Pellizzari racconta delle piattaforme più in voga su cui caricare le proprie uscite ricorda come le pedalate non condivise non risultino nemmeno più credibili. Il ciclismo è solo quello visibile, ma ciò che si vede non è mai reale: trasformato da filtri e consegnato a piattaforme proprietarie che trasformano l’esperienza in profitto. Il pedalatore come consumatore, ovvero come «lavoratore che non sa di lavorare», per tornare a Baudrillard.

È nato a Zilina, la quinta città della Slovacchia per numero di abitanti, il 26 gennaio 1990 (Anne-Christine Poujoulat/AFP/Getty Images)

La strumento per invogliare a questo nuovo consumismo nella lettura di Pellizzari è un cambio nella percezione del ciclismo: non più sport della sofferenza ma pratica della gioia. Quella che Peter Sagan comunica con le vittorie, le impennate, le battute e le clip su internet. La metà allegra di Sagan, che piace a tutti quanti, tifosi e colleghi. Poco importa se questa gioia sia genuina o meno: Pellizzari lo racconta così, non lascia spazio al Sagan più oscuro e riflessivo, tanto da intersecare il suo personaggio a quello dei rapper o dei personaggi televisivi. Sagan diventa – c’è da scommettere che presto lo diventerà davvero – il protagonista spaccone di un telefilm à la Netflix, una sorta di Fonzie con il cellulare in tasca.

È un’analisi impietosa, perché verissima. Il ciclismo, dopo un ventennio di sofferenza e malgoverno, che non è riuscito comunque a estrometterlo dalla cerchia degli sport più popolari dell’Occidente, è uscito dalla sua bolla per attrarre un pubblico nuovo, differente, essenzialmente più danaroso. Per farlo aveva bisogno di campioni ma anche di testimonial. Peter Sagan riesce nell’impresa di coniugare entrambe le cose. Una specie di Cristiano Ronaldo o di Tom Brady a pedali: fenomenale nello sport, dirompente nella pubblicità. Eppure qualcosa non torna, in quest’epoca di ciclismo da vetrina, di bike cafè e circuiti promozionali, Peter Sagan passa in televisione anche in questi giorni, protagonista in corsa al Tour e fuori corsa tra interviste, comparsate, post, tweet… e come attore nelle pubblicità dei suoi sponsor. Che non sono le grandi multinazionali, i marchi che muovono i flussi di denaro (e di potere) nello sport, ma restano un’azienda di cappe aspiratrici per cucine, una che produce docce, un’altra che si occupa di pali per vigneti e frutteti. Nomi, colori, provenienze diverse, ma potrebbero essere gli stessi sponsor di Gianni Bugno, Laurent Fignon o Felice Gimondi. Sagan è il testimonial di un ciclismo che cambia ma che allo stesso tempo resta lo sport degli «enormi carrozzoni pubblicitari della carne in scatola Simmenthal al Giro, le auto del dentifricio Chlorodont», o, ancora, «l’enorme calzatura da donna della Ebano, lucido da scarpe». Basta trascorrere un pomeriggio a bordo strada per accorgersene. Un ciclismo che è tornato ad accogliere le popstar, ma non ha ancora trovato il demone in grado di comprargli l’anima.