In This is football c’è tutto il calcio del mondo, da Messi al Rwanda

Intervista a John Carlin, autore della nuova docuserie di Amazon Prime.

La telecamera vola sulla natura verde e rossa del Rwanda. Stacca su un campo da calcio senza spalti e tra le strade sterrate della capitale Kigali. Poi il drone si alza su cartoni e lamiere che sono i tetti di una zona del centro, dove le case sono disposte senza un ordine preciso, una sull’altra. Intanto il voice over di uno speaker radiofonico introduce gli ascoltatori all’atmosfera di Anfield, lo stadio di Liverpool che dista appena 10mila chilometri, per una partita di Premier League.

Il legame tra la Repubblica del Rwanda, ex colonia dell’Impero Tedesco nell’Africa centro-orientale, e il calcio è un racconto di identità e integrazione, di inclusione e di redenzione, e segna la storia di un Paese martoriato da una guerra civile che a metà anni Novanta ha causato un milione di morti in 100 giorni. Redemption è infatti il titolo del primo episodio di This Is Football, una serie in 6 docufilm di circa un’ora che «vuole raccontare storie di calcio, quindi storie che colpiscono emotivamente, ma che descrivano la realtà per quella che è, o è stata», come dice il suo stesso ideatore John Carlin, giornalista inglese corrispondente dall’estero e autore di libri sportivi, che ha lavorato  al progetto con Raimon Masllorens.

This Is Football – prodotto dalla casa di produzione October Films, in collaborazione con Brutal Media e Starbucks per Amazon Prime Video, disponibile in Italia dal 2 agosto – è girato in tutto il mondo, dall’Islanda all’Argentina, dalla Cina al Rwanda, ci sono interviste di giocatori leggendari, presidenti, poeti, manager e matematici, oltre che tifosi di ogni angolo del pianeta. Carlin racconta il calcio secondo la sua visione, una visione lineare, semplice. Ma non semplificatrice, banale o scontata. Carlin guarda al calcio principalmente come sport popolare, e in quanto tale come generatore illimitato di storie in grado di arrivare a tutti. «Abbiamo confezionato 6 episodi, ma avremmo potuto farne 600», dice in riferimento alla mitopoiesi del gioco. Ma va molto oltre tutto questo: quando si parla di calcio non si parla solo di campo, del pallone, dei 90 minuti che delimitano una partita. Il calcio è inevitabilmente parte della storia degli uomini e delle donne che lo vivono; della geografia dei luoghi; della psicologia dei suoi protagonisti; della scienza che studia sistemi innovativi per leggerlo e interpretarlo in modi sempre nuovi.

Prendiamo ad esempio Wonder, l’episodio su Lionel Messi. Qui il fuoriclasse argentino è protagonista, eppure resta laterale. È semplicemente un connettore di storie, di racconti che uniscono i tassisti, gli edicolanti e le persone che vivono le strade di Barcellona tutti i giorni – per i quali Messi è un artista al pari di Antoni Gaudí o Joan Mirò, che hanno abitato la capitale catalana prima di lui. Vite che si uniscono con quella di una ragazza di Pechino che dista migliaia di chilometri e indossa la maglia #10 rosa salmone del Barça: quando vede l’argentino sullo schermo si emoziona tanto quanto chi sta al Camp Nou – ed è felice che la sua vita sia influenzata dai gesti e le magie che Leo fa col pallone. E le loro storie sono sullo stesso piano di chi con Messi è cresciuto tra le strade del barrio rosarino, con i colori del Newell’s Old Boys cuciti addosso.

Al fianco degli amici di infanzia di Messi c’è Mauricio Macri, presidente dell’Argentina. E le sue parole hanno esattamente lo stesso tono, la stessa enfasi e lo stesso peso di quelle di tutti gli altri. Sono tutti sullo stesso piano. Ed è soprattutto in Argentina che John Carlin fa notare come il calcio sia soprattutto un livellatore sociale. «Tutti questi personaggi, quando parlano di calcio, hanno un linguaggio comune, potrebbero mettersi comodi e parlare l’un con l’altro. E se tutti i giorni il calcio crea storie, è sempre un argomento di discussione, proprio come lo sarebbe una calamità naturale o un’elezione imminente o qualcosa di simile. Ma è costante e infinito. E lo fa a tutti i livelli. Immagina una discussione qualsiasi a tema calcistico, vi ci potranno partecipare un professore di Matematica di Harvard, un professore di Filosofia della Sorbona, e un numero a caso di persone prese dalla strada. È democrazia, democrazia del pensiero, democrazia della conoscenza».

Un tifoso dell’Islanda intervistato in un episodio della docuserie This is Football (foto Amazon Prime)

Il potenziale quasi mistico che Carlin attribuisce allo sport più popolare al mondo emerge chiaramente tornando in Rwanda. La Nazionale che partecipò alla Coppa dell’Africa Orientale nel 2003 non è solo la squadra che ha riportato il Paese a giocare una finale (poi persa con l’Uganda), ma è il simbolo di una nazione che è riuscita a riconciliare le sue anime più distanti dopo uno dei massacri più cruenti della storia, quello degli Hutu ai danni della popolazione di etnia Tutsi. E lo ha fatto proprio grazie allo sport che era stato importato dai belgi sul finire dell’Ottocento, gli stessi belgi che avevano portato divisione etnica e tensione interna. Una rinascita totale, con propagazioni molto più vaste di quel che si potrebbe immaginare: terminata la guerra civile, venne creato un programma nazionale di calcio femminile per incoraggiare le giovani donne – che avevano subito abusi e violenze – ad essere attive, a sentirsi di nuovo vive.

In This is Football il calcio va sempre oltre il campo, ma non abbandona mai la sua anima popolare. Quella resta, ed è alla base. Da qui l’idea di produrre 6 docufilm caratterizzati da una carica emotiva forte, quella che colpisce prima di ogni altro aspetto. «Le storie le abbiamo scelte in base all’elemento “drama” che contenevano. Che poi è quel che ti fa capire quanto sia presente ed enorme il calcio nelle nostre vite», ha spiegato Carlin. Sul Guardian, Barney Ronay ha sottolineato proprio come prodotti di questo tipo sul calcio siano sempre più rari, perché le emozioni che genera This Is Football sono davvero legate alle storie che racconta, «non inquinate da un tifo che è sempre più tossico, dove amore significa consumo, sponsor e successo economico».

Il trailer ufficiale della serie

L’amore e le emozioni di cui parla Ronay sono davanti a tutte le cose nella serie di Carlin, e riguardano l’elemento primordiale del calcio, ovvero quegli aspetti che lo rendono lo sport popolare per eccellenza, e che allo stesso tempo lo elevano ad un livello superiore. «In Inghilterra diciamo che se dovessimo fare un referendum, dovremmo farlo su quale deve essere l’undici titolare della Nazionale, non sulla Brexit e altre beghe politiche», dice John Carlin. È una battuta, ma serve a spiegare l’impulso alla conoscenza, alla consapevolezza, al miglioramento che il calcio comporta: «Le persone non solo guardano il calcio perché è bello», spiega Carlin, «ma perché è bello appassionarsi, studiarlo, approfondirlo in ogni suo aspetto. E ci si specializza sempre più».

Poi, però, ognuno conserva la sua idea, «ognuno gioca con la magia del calcio nel modo che preferisce», conclude, «per me, ad esempio, è una consolazione e un rifugio. È anche una passione, la passione più grande e costante della mia vita, con l’unica eccezione dell’amore che posso provare per mia madre».