Gli sport da spiaggia, il tempo e noi

I passatempi in riva al mare rispecchiano il nostro modo di vivere, e per questo hanno vissuto, nel tempo, molti cambiamenti. Con le eccezioni, immancabili, del caso.

Agli inizi del Novecento, dice lo storico, sulle spiagge italiane si giocava al tamburello. Già solo dal nome pare un’attività splendidamente romantica, evoca lidi proustiani e pagliette in testa. Poi sono arrivati i barbari. Alle tenute balneari di maglina rigata si è sostituito lo slippino bianco (da uomo!), al tamburello i racchettoni. Stare al mare tira fuori il vecchio reazionario che è in noi, non possiamo farci niente. In questo caso, ci aggrappiamo sdegnati persino all’onomastica: racchettone è, anche solo linguisticamente, segno di assalto all’ordine del bagnasciuga, di involgarimento dei natanti, di decadimento dei costumi (non solo da bagno). Sempre lo storico ci insegna che il racchettone è spuntato sui nostri litorali alla fine degli anni Settanta, subito dopo il Boom e prima della bomba Eighties-edonista. Naturalmente il primo avvistamento è registrato in Romagna, che la villeggiatura marittima moderna (e relativi passatempi) l’ha di fatto inventata, fino a farla diventare un genere letterario.

Racchettoni e bacchettoni non s’incontreranno mai, ma ormai anche i più incalliti tra i secondi ci hanno fatto l’abitudine. Sulle spiagge nostrane il suono smorzato della pallina non è più inquinamento acustico, è un rumore di fondo come il grido «Coccobello!». L’unica vera seccatura di quello sport (siamo generosi) è che ha progressivamente conquistato il nostro spazio anche visivo. Ci si domanda: è nato prima il racchettone o la battigia? Perché è quello il terreno di gioco perfetto, con conseguenze finanche drammatiche: ormai è impossibile, tra fidanzatini, scattarsi le foto in posa da sirenetti senza rischiare di prendersi un colpo in testa. Ma c’è il lato positivo (per gli altri, mica per noi): il racchettone è uno sport incredibilmente unisex, mette d’accordo tutte le coppie d’Italia, questo merito sociale gli va in fondo riconosciuto.

Una volta la spiaggia era uno spazio sportivamente neutro. Le discipline più o meno degne di questo nome venivano praticate in luoghi debitamente recintati (il beach volley) o alle spalle degli ombrelloni (le corse in bicicletta nelle pinete, il tennis nei circolini d’impronta vanziniana). O, ancora, direttamente in acqua: schiacciasette è stato il gioco principe delle nostre estati da adolescenti a mollo. La sabbia era territorio esclusivo dei piccoli: i castelli espugnati dalla prima onda più grossa, le gare di biglie di plastica mezze piene e mezze vuote, da una parte la metà di sfera colorata, dall’altra quella che rivelava un calciatore famoso, un’automobilina da corsa, e via così. L’evoluzione delle biglie è l’unico sport che ha saputo affratellare le generazioni. Le bocce, da alcuni nonni della riviera di Ponente sciccosamente chiamate pétanque, hanno unito vecchi (meno reazionari di noi) e nipotini. Da 0 a 99 anni, si diceva una volta, tutti ad aguzzare la vista in direzione di boccini neri inghiottiti dalla sabbia.

Anche a bocce si poteva giocare lontano dagli sguardi e dalle orecchie, confinati in qualche angolo di spiaggia. Dopo, appunto, c’è stata la presa del bagnasciuga: ma eravamo già stanchi. Più tardi ancora, siamo diventati vecchi pure noi. Vecchi e tromboni. Abbiamo riscoperto attività che pareva impensabile praticare. I giochi con le carte sono diventati un’aspirazione, oltre che un brivido vintage. Abbiamo fatto battaglie nostalgiche per riavere il Winner Taco nei frigoriferi dei chiringuiti del mare, ci siamo accorti che giocare a briscola o a scopa era un altro magnifico rigurgito di secolo scorso da rilanciare. Ovviamente all’ombra: siamo troppo vecchi per stare al sole.

Diventeremo più vecchi ancora, e ci resterà il solo sport da spiaggia davvero intramontabile, e pure l’unico che non disturba nessuno: le parole crociate. La disciplina più sottovalutata di tutte. Solitaria e resistente. Una maratona silenziosa. O quasi: al massimo si sentirà gridare, da una sdraio all’altra, «Sei lettere: il poeta delle Metamorfosi!». Ma che delizia, rispetto ai racchettoni.

Da Undici n°28