I giovani non sono più una priorità per i top club?

Il travaso dal settore giovanile alla prima squadra è sempre meno diffuso nelle realtà più ricche d'Europa.

A Parma, nella prima giornata di campionato, Matthijs de Ligt era in panchina. «Non mi aspettavo di rimanere fuori, ma devo essere realistico: devo ancora ambientarmi in Italia. Dovrò conquistarmi il posto in questa stagione». La sua sorpresa è, inevitabilmente, la sorpresa di tutti: in quale squadra farebbe panchina de Ligt, il difensore più corteggiato dell’ultima sessione di mercato, nonché il terzo acquisto più costoso nella storia della Juventus? In una squadra – risposta – il cui reiterato obiettivo stagionale è vincere tutte le competizioni in cui si è in corsa, e per farlo è necessario disporre non di 10 giocatori, non di 15, ma di un’intera rosa di assoluto livello. «Abbiamo 27 giocatori, tutti di pari livello escluso uno che è Ronaldo», ha detto Martusciello alla vigilia di Juventus-Napoli.

L’estate della Juventus è stata singolare: non sono stati tanto gli acquisti quanto le possibili partenze a rendere effervescente il mercato. I nomi degli esuberi cambiavano di settimana in settimana: ora Dybala, ora Mandzukic, ora Khedira e Matuidi, fino a Rugani ed Emre Can. Giocatori importanti, potenzialmente titolari in qualsiasi squadra di vertice, che improvvisamente diventano marginali proprio per via di una concorrenza spietata.

La cartina di tornasole è rappresentata da una lista Champions depurata di nomi di spessore – fuori Mandzukic ed Emre Can, oltre agli infortunati Chiellini, Perin e Pjaca. I bianconeri hanno potuto iscrivere soltanto 22 elementi: la lista A della Champions prevede un massimo di 25 nomi, ma quattro di questi devono essere obbligatoriamente Club Trained Player – quei giocatori che, tra i 15 e i 21 anni, sono stati tesserati nel club di appartenenza per tre stagioni o per 36 mesi. L’unico giocatore bianconero che risponde a tale criterio è il terzo portiere, Carlo Pinsoglio, mentre gli altri tre posti sono rimasti vuoti. Così come vuota è la lista B (seppur rinnovabile alla vigilia di ogni partita), riservata ai giocatori nati dal 1 gennaio 1998 in poi con almeno due anni di militanza nel club: la Juve ha de Ligt e Demiral tra gli under 21, ma entrano nella lista A perché non hanno stagioni in bianconero alle spalle.

La composizione della lista introduce una domanda ovvia, ovvero i motivi dell’assenza di giocatori formati nel settore giovanile di riferimento. Stiamo parlando di una delle realtà calcistiche più importanti d’Europa, nonché l’unica in Italia ad avere una propria Under 23 in Serie C. Ma se il difensore più promettente del mondo, acquistato per 75 milioni di euro, finisce in panchina, quali sono le possibilità per gli altri giovani di ritagliarsi sufficiente spazio in squadra?

Matthijs de Ligt ha visto dalla panchina la prima partita con la Juventus, a Parma, per poi giocare contro il Napoli dopo l’infortunio di Giorgio Chiellini (Pakawich Damrongkiattisak/Getty Images)

La partenza di Moise Kean, uno dei migliori talenti del calcio italiano, sottolinea una volta di più questo aspetto. Pur con le ragioni economiche – leggasi: plusvalenza – alla base della cessione, Kean avrebbe avuto davvero poco spazio in un reparto già affollato da nomi di primissima fascia, come Cristiano Ronaldo, Dybala e Higuaín. Ma si sbaglia se si pensa che si tratti soltanto di un fenomeno solamente italiano: quest’estate il Psg ha ceduto a titolo definitivo diversi elementi formati nel suo settore giovanile –  Timothy Weah, Moussa Diaby, Christopher Nkunku, Stanley Nsoki, Arthur Zagre, Yacine Adli. Il Manchester City, negli ultimi anni, si è privato di giocatori unanimemente considerati validi, come Jadon Sancho, Brahim Díaz e Rabbi Matondo.

Parlare di fallimento della politica giovanile di questi club – perché il travaso di giocatori in prima squadra non si è realizzato – è fuorviante. Piuttosto, va ribaltata la prospettiva: le cessioni remunerative sono la dimostrazione del buon funzionamento dei settori giovanili. Moise Kean ha fruttato alla Juventus 30 milioni; il Psg, per i sei giovani ceduti in estate, ha raggranellato 65 milioni; Sancho, Diaz e Matondo hanno portato nelle casse del City quasi 40 milioni.

Dobbiamo individuare, perciò, un nuovo scenario nel calcio europeo in riferimento allo sviluppo dei giovani calciatori: una netta distinzione tra i club di prima fascia, con una superiore disponibilità economica, e quelli di medio-basso livello. Per questi ultimi, il settore giovanile è di fatto una necessità per crescere economicamente o sportivamente, o soltanto un modo per assicurarsi dei ricavi extra rispetto a quelli strutturali. Dall’altra parte della barricata, ci sono i migliori club del continente: Juventus, Manchester City, Real Madrid, e così via. Il settore giovanile rappresenta un asset importante, ma il passaggio dal vivaio alla prima squadra non è più automatico.

Nel 2017 Jadon Sancho decise di lasciare il Manchester City per il Borussia Dortmund, dove si è imposto come uno dei migliori giocatori della Bundesliga (Ina Fassbender/AFP/Getty Images)

Il caso del Barcellona è emblematico di questo discorso: per anni la Masia ha rappresentato la colonna portante della prima squadra, prima di un deciso cambio di rotta negli ultimi anni. Se la generazione dei Messi, degli Iniesta, dei Busquets e dei Piqué resta irripetibile, è anche vero che negli ultimi anni si è parlato di “crisi” della cantera blaugrana non tanto per la qualità dei giocatori, che a livello giovanile resta altissima, quanto perché la società ha cambiato strategia e si è allineata alle big spender d’Europa con acquisti milionari – spesso calibrati proprio su giovani calciatori ma non più “prodotti” in casa, come de Jong e Dembélé. La conseguenza diretta è stata un lungo elenco di addii, come Dani Olmo, Xavi Simons, Mateu Morey.

Una lista che, allargando il discorso ad altre squadre europee, comprende anche Jadon Sancho e Paul Pogba: giocatori che, ancor prima di arrivare in prima squadra, hanno deciso di emigrare in realtà che garantissero loro attenzione e minuti in campo. Una decisione che ha spiegato nel dettaglio Domingos Quina, oggi al Watford, che qualche anno fa spiazzò tutti con una scelta controcorrente: «Quando compii 16 anni, il Chelsea mi offrì un contratto professionistico. Però io vedevo giocatori più grandi di me, che credevo avessero grandi potenzialità, come Chalobah, Boga e Musonda, che non giocavano mai in prima squadra. Così rifiutai e scelsi di andare altrove, in una squadra che mi avrebbe dato maggiori possibilità di giocare».

Avere continuità in campo, confrontarsi con avversari più grandi e più forti, fare i conti con nuove difficoltà: la crescita di un giocatore passa da qui, e tutto questo si condensa in un momento ben preciso – la partita. Ma con la diffusione di rose sempre più competitive – una vera e propria “corsa agli armamenti” messa in atto dalle squadre più ricche – guadagnarsi un posto da protagonista in un top club diventa sempre più complicato. Phil Foden, classe 2000, è certamente uno dei giovani di spicco del calcio inglese. Guardiola lo ha definito di recente «il più grande talento mai visto». La sua crescita, però, rischia di essere rallentata: Foden è stato solamente il ventunesimo giocatore del Manchester City per minutaggio nella scorsa stagione, e in quella appena iniziata, su cinque partite ufficiali, è sceso in campo per appena undici minuti. Il punto è che il City – una squadra con potenzialità e ambizioni smisurate – non può sacrificare un risultato in nome della crescita dei suoi giovani, almeno fino a quando non saranno ai livelli dei migliori. Per una squadra che ha avuto bisogno di 98 punti – non uno di meno – per vincere l’ultima Premier League, perdere punti per strada è l’ultima cosa che può permettersi.

L’ascesa di Marcus Rashford nel Manchester United è stata fortemente agevolata dalle delusioni dei Red Devils in attacco (Michael Regan/Getty Images)

Sempre più spesso, sono situazioni di emergenza ad agevolare l’esplosione dei giovani nelle grandi squadre. È il caso di Marcus Rashford e il suo debordante impatto nello United nel 2016, con van Gaal che scommise tutto su di lui viste le non convincenti prestazioni di Depay e Martial, arrivati a Manchester in quella stagione. O come il caso di Ansu Fati, a 16 anni in gol contro l’Osasuna, e Carles Pérez, che stanno trovando spazio nel Barcellona grazie alle assenze forzate di Messi, Suárez e Dembélé. Circostanze dal carattere temporaneo, almeno non quanto quella del Chelsea, condizionato dal blocco del mercato: Frank Lampard ha dovuto mettere i giovani al centro del progetto – Tammy Abraham, Mason Mount, Fikayo Tomori e Billy Gilmour, tutti cresciuti nell’academy dei Blues, hanno avuto minuti in campionato. In attesa del ritorno in campo di Callum Hudson-Odoi, che il Chelsea ha voluto trattenere a ogni costo – nonostante l’interesse di altri club, Bayern Monaco in testa – e che ora pensa di “premiare” con un rinnovo di contratto. Un club riconosciuto internazionalmente per l’esasperato player trading e per i tanti giocatori in prestito in giro per l’Europa che attinge, come mai prima d’ora, al bacino del settore giovanile. La domanda è: quanto durerà? La risposta è fin troppo scontata.