Henrikh Mkhitaryan non è solamente uno dei più importanti colpi in entrata messi a segno dalle squadre italiane nell’ultima sessione di calciomercato: il suo nome, infatti, è comparso più volte nelle notizie per questioni non legate alla sua abilità nel verticalizzare il gioco o per il numero di assist forniti al centravanti di turno, per il suo talento naturale e per la sua storia familiare, Heno (com’è soprannominato in patria) è diventato il simbolo dell’Armenia. E, in queste vesti, ad esempio, non era possibile che andasse a Baku a giocare la finale di Europa League con il suo Arsenal.
Non è calcio, ma geopolitica. Il 30 agosto 1991, sulla travolgente onda dell’incontrollata e precipitosa dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’Oblast Autonoma del Nagorno Karabakh (NKAO) dichiara la sua indipendenza da Mosca. L’NKAO, nel pieno spirito della politica stalinista, dal 1923 era una regione autonoma all’interno della RSS dell’Azerbaigian, pur essendo abitata da una popolazione in gran parte armena. Già prima della dichiarazione d’indipendenza si era scatenata la violenza nella regione, con numerosi episodi di pogrom e pulizia etnica: l’atto formale unilaterale di Stepanakert, capitale dell’oblast, è la scintilla che fa scoppiare una guerra. Il 2 settembre, infatti, la Repubblica dell’Artsakh, o Repubblica del Nagorno Karabakh, proclama la sua secessione da quella che, nel frattempo, è diventato l’Azerbaigian indipendente. Baku invia le proprie milizie nella regione montuosa per riportare sotto il proprio controllo i ribelli, mentre il 23 settembre anche quello che diventerà il terzo attore in campo, l’Armenia, si dichiara indipendente.
Il conflitto armato si scatena tra l’esercito dell’Azerbaigian e quello del Nagorno Karabakh, armato dai fratelli armeni di Yerevan che, nell’indipendenza di Stepanakert, vedono la possibilità di ridare vita alla Grande Armenia, quella che quando alza gli occhi al mattino guarda verso il Monte Ararat come la vetta promessa. II 5 aprile 1994, grazie soprattutto all’italiano Mario Raffaelli, delegato OCSE, vengono firmati gli accordi di Bishkek, con i quali si sancisce il cessate il fuoco nel conflitto: la pace, però, è ancora di là da venire. Armenia e Azerbaigian sono ancora due nazioni in guerra tra loro e, come tali, vivono le loro relazioni diplomatiche. Quando mi trovai a Baku per scrivere un libro sul Qarabag e il conflitto caucasico, chiesi a Gurban Gurbanov, l’allenatore della squadra proveniente dalla città di Agdam – rasa al suolo durante il conflitto –, della possibilità teorica che Azerbaigian e Armenia si potessero affrontare nella prima edizione della Nations League. La risposta: «Sì, solo in finale potremmo affrontarci. E se succedesse, sarebbe in un campo neutro, senza spettatori. Ma non vorrei mai incontrare il nemico». Una parola che dice tutto del clima che si respira tra i due contendenti. Le violazioni del cessate il fuoco sono all’ordine del giorno da 25 anni, come le vittime lungo la labile linea di confine tra il NK e l’Azerbaigian che vengono usate da ambo le parti per giustificare il mantenimento di uno status quo che, a dispetto delle dichiarazioni, fa comodo a tutti mantenere come tale. Anche alla Russia, che così può continuare a vendere armi a tutte le parti in guerra.
Henrikh Mkhitaryan nasce a Yerevan il 21 gennaio 1989, in quella che all’epoca è la capitale della Repubblica Socialista Sovietica dell’Armenia, ma trascorre l’infanzia in Francia: il padre Hamlet, infatti, gioca come attaccante nel glorioso Ararat e nell’estate dello stesso anno si trasferisce al Valence, nella Ligue 2 francese. Hamlet fa in tempo a disputare due partite con la Nazionale dell’Armenia indipendente, poi lascia il calcio dopo che gli è stato diagnosticato un tumore al cervello: Hamlet, la moglie Marina, la figlia Monika e il piccolo Henrikh tornano quindi a Yerevan, sulla cui Hanrapetutyan Hraparak (piazza della Repubblica) sventola, a differenza di quando hanno lasciato la città sei anni prima) lo Yeřaguyn, il tricolore rosso, blu e oro, vessillo dell’Armenia indipendente. Hamlet muore, dopo tre interventi subiti in un anno, il 2 maggio 1996.
Il giovane Henrikh, cresciuto guardando le videocassette del padre in azione, vuole seguire le sue orme paterne e a 13 anni vola in Brasile, per allenarsi 4 mesi con il São Paulo. Tecnicamente è un predestinato: a 17 anni esordisce nel massimo campionato armeno con il Pyunik, prima di iniziare un giro d’Europa che lo porta in Ucraina, Germania, Inghilterra e, dal 2 settembre scorso, in Italia. Heno, che dall’esperienza in Germania ha il soprannome internazionale di Miki, parla correttamente sette lingue ed è diventato il simbolo del calcio armeno in Europa e nel mondo. Per questo le sue tre visite a Stepanakert hanno assunto un enorme valore politico: durante una di queste, nel dicembre 2011 quando giocava nello Shakhtar Donetsk, ha portato doni ai familiari dei soldati caduti nella guerra contro l’Azerbaigian ed è stato insignito della medaglia “Difensore della patria” e quella ufficiale del Primo ministro della NKR.
Il primo ottobre 2015, le agenzie di tutto il continente battono la notizia che l’armeno Mkhitaryan non prenderà parte alla trasferta di Europa League del Borussia Dortmund a Gabala, in Azerbaigian: la causa è il conflitto in essere nel territorio montuoso del Caucaso. Il Borussia di Tuchel, anche senza il suo fantasista, liquida la pratica con un 3-1, ma è solo la prima volta che Mkhitaryan non metterà piede in territorio nemico, per usare i termini di Gurbanov.
Il 3 ottobre 2018 il trequartista dell’Arsenal salta la trasferta di Champions League contro il Qarabag che si disputa allo Stadio Olimpico di Baku. Pur essendo due nazioni in guerra tra loro, l’Azerbaigian concede visti speciali di entrata per consentire agli atleti armeni di partecipare a competizioni sportive sul suo territorio: emblematica, in questo senso, è stata la prima edizione dei Giochi europei nel 2015 ai quali ha preso parte una delegazione di 25 atleti in rappresentanza dell’Armenia. Ma l’Arsenal non fa nemmeno richiesta del visto: «Non poteva viaggiare fin qui», ha dichiarato Emery per spiegare la decisione. «Qui ci siamo noi, i giocatori con la migliore mentalità, preparazione e possibilità di giocare domani». Tradotto: Mkhitaryan non è nella condizione psicologica per affrontare il nemico, per trovarsi contro 68mila persone pronte a prenderlo come bersaglio per tutti i novanta minuti dell’incontro. L’Arsenal lo ha “salvato”, ha dichiarato Gurbanov, provocatorio, in conferenza stampa.
Il terzo rifiuto, il più pesante, è dello scorso 29 maggio. Baku stavolta è la sede della finale di Europa League e l’Arsenal deve affrontare il Chelsea, in una sfida tutta inglese. L’Arsenal tenta un sottile lavoro diplomatico con la Uefa, al fine di garantire le migliori condizioni di sicurezza possibili per il suo giocatore e, addirittura, alcuni organi di stampa riportano la voce secondo cui i Gunners abbiamo addirittura tentato di far spostare la sede della finale per consentire a Mkhitaryan di partecipare, nelle migliori condizioni psicologiche possibili. Ma il trequartista non va a Baku, nonostante il club abbia ricevuto tutte le rassicurazioni possibili: «Mentre il club riconosce gli sforzi profusi dalla Uefa e dal governo azero in questa materia, rispettiamo la decisione personale di non far viaggiare il giocatore», è il laconico commento del massimo organo calcistico continentale.
La storia di Mkhitaryan dimostra chiaramente come calcio e politica non possano essere separati: sono due entità strettamente legate, talmente interconnesse che in alcune vicende non si riesce nemmeno chiaramente a distinguere dove finisca l’una e inizi l’altra. Come accade da un quarto di secolo lungo la linea che parte dalla catena montuosa di Murovdag a nord, fino a raggiungere Fizouli e, ancora più a sud, il villaggio di Gorazid, dove il confine tra il diritto internazionale, le aspirazioni di autodeterminazione e gli interessi internazionali si confondono fino a rendere quasi impossibile orientarsi.