Pep Guardiola: ossessione Champions

Ha costruito un Manchester City fortissimo, ma il giudizio su di lui resta legato ai risultati in Europa.

Per quanto Pep Guardiola possa provarci, non gli vedrete mai dipinta sul volto una smorfia di piena soddisfazione. È rimasta memorabile una sua frase ai tempi del Bayern Monaco: «Dobbiamo fare meglio in attacco». Fare meglio, proprio così disse, a una squadra che nelle precedenti tre partite di campionato aveva vinto, nell’ordine, 8-0, 6-0 e 4-1. Immaginate la faccia dei suoi giocatori. E quella dei suoi attuali uomini, al Manchester City.

Alla vigilia del gran finale di stagione, Guardiola ha promesso: «Il prossimo anno saremo più forti, saremo migliori». 198 punti in due edizioni di Premier non sono sufficienti. Né l’aver vinto, primo nella storia d’Inghilterra, il treble nazionale. O l’aver ammirato la sontuosa rimonta, nell’ultimo campionato, ai danni del Liverpool, che a Natale aveva sette punti di vantaggio – cancellati dai Citizens con una striscia di 14 vittorie nelle ultime 14 giornate, 32 gol fatti e 4 subiti. Già, è impossibile non collegare la dichiarazione d’intenti con quello che – secondo molti – è l’obiettivo principale di Guardiola nel Manchester City: la vittoria della Champions League. «So che alla fine sarò giudicato sulla base di questo, se l’avrò vinta oppure no», ha ammesso di recente. Tre eliminazioni con il City, una agli ottavi e due ai quarti, non rendono merito alla fama del tecnico catalano. Capace di vincere due volte la Champions nelle prime tre stagioni da allenatore professionista.

Da allora, però, è passato quasi un decennio. Né con il Bayern (fuori sempre in semifinale) né con la squadra inglese Guardiola ha lasciato il segno in Europa. Soprattutto con il City, i trofei di guerra sono scarsi: nessuna big eliminata (nella fase a eliminazione diretta, gli inglesi hanno avuto la meglio soltanto su Basilea e Schalke) e ben 15 reti subite, uno sproposito, nelle sei partite che hanno sancito la fine della corsa nelle ultime tre edizioni – contro Monaco, Liverpool e Tottenham in ordine cronologico.

Jonathan Wilson ha scritto che l’ultimo grande successo di Guardiola in Champions è stato nel 2011, con la vittoria del Barça di un meraviglioso Leo Messi al Bernabéu. Al più si potrebbe aggiungere l’ottavo di finale nel 2016 contro la Juventus, con il suo Bayern che, sotto di due gol e a un passo dall’eliminazione, ha poi vinto 4-2 ai supplementari. Numerosi sono stati i tentativi di trovare una motivazione nell’apparente contraddizione tra il Manchester City d’Inghilterra e il Manchester City d’Europa; e, più in generale, sulle presunte difficoltà di Guardiola in Champions. Il calcio, per la verità, spesso è più semplice di quanto voglia – o vogliamo farlo – apparire: i fiaschi continentali del City sono stati figli di situazioni per così dire anomale, dove giocatori di purissima classe o di comprovata esperienza internazionale si sono ritrovati, spesso tutti insieme, nella più classica delle serate no – la pesante sconfitta in casa del Monaco o le tre reti del Liverpool ad Anfield nel giro di venti minuti ne sono esempio chiarissimo.

Il Manchester City allenato da Guardiola è stato eliminato due volte ai quarti di finale di Champions (2018 e 2019) e una volta agli ottavi, nel 2017 (Shaun Botterill/Getty Images)

E che dire dell’ultima eliminazione, contro il Tottenham (che in Premier, ricordiamolo, ha perso due volte su due contro il City, e ha chiuso con un -27 in classifica)? La qualificazione del City è stata negata dal Var al 95’, e prima da un gol di braccio di Llorente (con le regole dell’Ifab entrate in vigore da quest’estate sarebbe stato irregolare), e prima dai pasticci dei suoi centrali difensivi, e prima ancora da un rigore sbagliato da Agüero. I soliti, maledetti, capricci del destino di Champions.

È per questo che Guardiola ha sviluppato una forma di diffidenza nei confronti della competizione europea, una predisposizione mentale che valorizza tutto quello che la Champions spesso trascura: il miglioramento del gioco collettivo e dei singoli, la continuità dei risultati, la forza del gruppo. «È ovvio che mi farebbe piacere vincere la Champions, però il campionato, dove giochi ogni tre giorni, fa sì che i giocatori ti seguano», ha detto il catalano poche settimane fa. «Vincere il campionato in Inghilterra è molto difficile, noi ci siamo ripetuti in questa stagione ed è stata la prima volta in Premier in undici anni». Che è un po’ una precisazione di quello che diceva alla vigilia del ritorno di Champions contro gli Spurs: «Non sono venuto qui per vincere la Champions, ma per far sì che la squadra si esprima come ha fatto negli ultimi venti mesi».

In tre stagioni sulla panchina del Manchester City, Guardiola ha vinto sette competizioni: due Premier League, due Coppe di Lega, due Community Shield e una Fa Cup (Mike Hewitt/Getty Images)

C’è un fondo di verità, e anche molto sostanzioso, nelle parole di Guardiola. Più che ironizzare sulle sue paturnie europee, dovremmo misurarne la grandezza nei tornei nazionali: in dieci stagioni da allenatore, ha vinto il campionato otto volte. Straordinario. Sfortunatamente per lui, al City si aspettano che vinca la Champions quanto prima. Una precisa missione che nemmeno al Bayern aveva un peso così rilevante: perché il progetto faraonico degli emiri dev’essere obbligatoriamente sorretto da un’affermazione europea. Una squadra di grande prestigio non può sbandierare un’unica, misera semifinale nel 2016, con Pellegrini in panchina.

Anche in questa stagione, le attenzioni sul City saranno sul suo cammino europeo, più che sul possibile – e clamoroso – traguardo di tre Premier vinte di fila. Una squadra fortissima, un impianto di gioco collaudato, e il miglior allenatore al mondo. Pure lui, come è nel destino di tutti i suoi colleghi, minacciato dalla tirannide del risultato.

Dal numero 29 di Undici