Come l’Arsenal sta cercando di tornare a fare l’Arsenal

La ricostruzione dei Gunners passa da un restyling profondo, che tocchi tutti gli aspetti di campo e non.

Qualsiasi articolo o pamphlet letterario o romanzo sull’Arsenal non manca mai di celebrare la sensazione di misticismo che ammanta la storia dei Gunners, tutta la storia dei Gunners, eternamente sospesa tra vittorie e noia e innovazione e ristagno – dalle invenzioni di Chapman negli anni Venti fino al Boring Boring Arsenal, passando poi all’infinita era Wenger e all’epoca contemporanea, così interlocutoria, quasi sottomessa alla mancanza perenne di grandi risultati. Tutto diventa grande, esasperato, quando si parla di Arsenal. Al punto che dopo la brutta sconfitta in finale di Europa League per mano del Chelsea – un evento certamente negativo, arrivato però al termine di un percorso europeo di ottimo livello, che altrove sarebbe stato celebrato con maggiore enfasi –, Espn ha scritto come all’Emirates siano «rassegnati alla mediocrità, il 4-1 subito a Baku è lo specchio della gestione dell’Arsenal negli ultimi anni: passiva, incerta e priva di leadership. E il problema è che lo scenario futuro non è molto differente».

Sulla stessa lunghezza d’onda, un altro discorso ricorrente sulla storia recente dei Gunners riguarda il disamoramento progressivo dei tifosi, uno scollamento emotivo che ha iniziato a farsi percepire durante il declino dell’esperienza di Wenger, dopo la costruzione del nuovo stadio, e che non è diminuito nell’ultimo anno, nonostante l’arrivo di Unai Emery. Secondo l’Independent, l’Arsenal è diventata una società che sotto la gestione di Stan Kroenke (socio dal 2007, proprietario unico dal 2018) «ha perso di vista il suo scopo fondamentale, non riesce più a farsi sentire: nei primi dieci anni di Wenger, era una squadra che giocava un bel calcio e, anche se non vinceva sempre, faceva emozionare i tifosi. Dopo, queste emozioni sono diventati rabbia per la testardaggine del manager francese. Ora non c’è più niente che dia uno stimolo forte all’ambiente».

Pierre-Emerick Aubameyang è arrivato a Londra nel gennaio 2018: da allora 48 gol in 73 presenze (Michael Steele/Getty Images)

La realtà è necessariamente più sfumata: se è vero che il progetto tecnico di Emery non ha ancora trovato una propria identità definita e definitiva, altre persone, più nascoste nel backstage del club londinese, stanno cercando di creare un nuovo Arsenal. Anzi, «una nuova Arsenal Way, che sia proiettata nel futuro e non guardi a cosa significasse l’espressione Arsenal Way quindici anni fa». Queste parole sono di Per Mertesacker, ex difensore dell’Arsenal e della Nazionale tedesca, attuale direttore dell’Academy dei Gunners. La sua figura non è l’unica novità dell’organigramma: Edu, ex centrocampista negli anni degli Invincibles, dallo scorso luglio è diventato il primo Technical Director nella storia dell’Arsenal, praticamente un direttore tecnico che si occupa di tutto ciò che riguarda il campo da gioco, dal mercato fino allo scouting. Si tratta di un ruolo dirigenziale più specifico rispetto al Director of Football, una figura a sua volta considerata ancora “moderna” nel contesto inglese, ma che sta crescendo per importanza anche presso gli altri club, ed è equiparabile al direttore sportivo delle società italiane – per esempio una delle accuse che è stata mossa al Manchester United post-Ferguson è proprio quella di non aver assunto un Director of Football, quindi di non aver differenziato i compiti tra il manager e un’emanazione della dirigenza per la costruzione e la gestione della squadra.

In un’intervistaThe Athletic, Mertesacker ha illustrato il manifesto programmatico dell’Arsenal del futuro. Tutto sarà pensato e attuato per portare in campo un’idea di gioco ricercata, ambiziosa, come nello stile imposto da Wenger a partire dal suo arrivo, nel 1996. Ovviamente, questi principi culturali ed estetici saranno riadattati all’evoluzione tattica del gioco contemporaneo, proprio quell’adattamento che non era riuscito al manager francese: «Vogliamo dominare il possesso, ma vogliamo anche riconquistare la palla il prima possibile. Questi saranno i nostri modelli, dovremo allenarci e far allenare i nostri giocatori per rispettare i principi del nostro programma». La costruzione di una nuova identità progettuale e tecnica rappresenta l’evoluzione naturale dell’era Wenger, che a un certo punto del suo lungo regno londinese era rimasto l’unico riferimento in campo; nel frattempo la società aveva ultimato la fase di transizione da Highbury all’Emirates, per poi rivolgere le sue attenzioni allo sviluppo immobiliare e commerciale del brand, mettendo in secondo piano i risultati sportivi. Nasce da qui lo smarrimento dell’Arsenal, quella sensazione di vuoto pneumatico rispetto al blasone e alle ambizioni del club, come se fosse lasciato andare alla deriva, o al massimo come se navigasse a vista, senza una reale guida politica e spirituale.

Unai Emery è alla seconda stagione da allenatore dei Gunners, dopo un biennio al Psg (Laurence Griffiths/Getty Images)

La ristrutturazione finanziaria è stata portata a termine da Ivan Gazidis – che oggi al Milan ha un compito simile, e altrettanto complesso –, poi è iniziata la modernizzazione dell’area sportiva. Il processo è stato avviato intorno al 2017, con la creazione di nuovi ruoli professionali: Darren Burgess è stato Head of Performance fino al 2019, il legale Huss Fahmy, precedentemente al Team Sky di ciclismo, è stato assunto per gestire le trattative contrattuali con i tesserati. Nel 2018, è arrivato il catalano Raul Sanllehi, ex dirigente del Barcellona, nominato Head of Football Relations e poi “promosso” a Head of Football dopo l’addio di Gazidis. I compiti dell’ex amministratore delegato Gazidis sono stati scorporati: a Sanllehi è stata assegnata la gestione dell’area sportiva, l’inglese Vinai Venkatesham amministra invece la parte economica e commerciale.

In realtà, c’è stata pure un po’ di confusione nell’organigramma dell’Arsenal: prima di Edu, lo scouting e il calciomercato erano stati affidati all’Head of Recruitment Sven Mislintat, ex capo-osservatore del Borussia Dortmund. Il suo addio, nel gennaio 2019, aveva aperto una nuova posizione: si era pensato a Monchi per la successione, poi però è toccato a Edu. È evidente che non tutte le scelte fatte negli ultimi anni siano state giuste, ma è altrettanto chiaro come l’obiettivo del club londinese sia quello di costruire una struttura sempre più articolata, una vera e propria filiera aziendale con caratteristiche moderne, anzi post-contemporanee, basata su una differenziazione chiara di ruoli e attribuzioni. Ad esempio c’è Marcel Lucassen, ex responsabile dello sviluppo tecnico e tattico delle squadre giovanili della Germania, che è stato reclutato all’Arsenal come capo dello sviluppo di allenatori e giocatori. È una figura che si occupa di formare non solo i calciatori del vivaio dell’Arsenal, ma anche i tecnici che lavorano e lavoreranno nel vivaio dell’Arsenal. È un modo per creare e custodire un’identità comune, moderna.

Dopo otto giornate di Premier League, l’Arsenal è terzo con 15 punti (Julian Finney/Getty Images)

Parallelamente, è in atto un processo di ri-fidelizzazione con i tifosi. Edu e Mertesacker non hanno solo competenze specifiche nel ruolo che gli è stato assegnato – Edu era un fidato collaboratore di Tite nella Nazionale brasiliana prima di trasferirsi in Inghilterra –, ma sono anche due volti riconoscibili per il pubblico dell’Emirates, esattamente come l’attuale allenatore in seconda di Unai Emery: Freddie Ljungberg. Il caso di Ljungberg va ricollegato alla volontà di creare una specificità dell’organigramma, e poi sfruttarla: l’ex fantasista svedese è stato svezzato nel vivaio di e da Mertesacker e Lucassen, era tecnico dell’Under 23 e ora è entrato nello staff della prima squadra. La scelta non è stata casuale, piuttosto è stata attuata per facilitare il lancio definitivo dei calciatori del vivaio, in questa stagione Emery ha già concesso spazio a Bukayo Saka, Reiss Nelson e Joe Willock, tutti elementi allevati nell’Academy dell’Arsenal. È il progetto che si dilata nel tempo, che guarda al futuro e che non si ferma all’impatto di un solo allenatore – non a caso il contratto di Emery  terminerà nel 2021, e non si è ancora parlato di rinnovo.

Quest’ultimo aspetto segna la vera differenza rispetto al passato: Chapman e Wenger hanno segnato la storia dell’Arsenal con il loro impatto e le loro innovazioni, hanno trascinato la squadra e il club nella modernità delle rispettive epoche, solo che il loro governo è stato monocratico, adatto a un’era calcistica che si prestava al culto della personalità; oggi invece è tutto diverso, le società sportive sono delle grandi aziende, in cui gli allenatori – persino i manager all’inglese – possono essere figure centrali e influenti, ma bisogna partire dall’idea che in realtà siano transitorie, quindi è fondamentale creare strutture che sopravvivano al loro ciclo sulla panchina. Nel calcio moderno, l’identità di un club è legata a una certa cultura piuttosto che a certi professionisti, e all’Arsenal sembrano averlo capito, finalmente.