Il Borussia Dortmund non riesce a diventare grande

Il progetto del club giallonero è in fase di stagnazione.

Durante l’estate del 2016, il manager del Liverpool Jurgen Klopp rilasciò un’intervista alla Bild in cui elogiava la politica di mercato della sua ex squadra, il Borussia Dortmund: «Stanno facendo un lavoro eccezionale, i migliori talenti del calcio europeo sono finiti al Borussia». A Liverpool, da allora, sono cambiate molte cose: i Reds hanno migliorato la propria rosa e metabolizzato l’approccio tattico del tecnico tedesco, i due processi sono andati avanti in simultanea, alimentandosi a vicenda fino all’esplosione del biennio 2018-2019, che ha portato la squadra della Merseyside a giocare due finali di Champions League, a vincerne una, e a diventare – o meglio: tornare a essere – una delle più forti del mondo, se non la migliore in assoluto. A Dortmund, invece, sono passati tre anni. Gli stessi tre anni. E non è cambiato niente.

È ovvio che quest’ultima frase sia molto forzata, in realtà dal 2016 a oggi il Borussia ha visto alternarsi quattro allenatori sulla propria panchina – Tuchel, Bosz, Stöger e dal 2018 Favre – e ha concluso 83 operazioni di mercato in entrata e in uscita, secondo i dati di Transfermarkt. Però il modello di riferimento su cui sono stati fondati tutti cambiamenti è rimasto identico: ogni anno sono stati acquistati giocatori giovani molto promettenti, che poi sono stati lanciati sul palcoscenico della Bundes e della Champions League; per finanziare questi investimenti e rendere sostenibili tutte le attività della società, sono state effettuate delle cessioni che hanno coinvolto gli elementi diventati nel frattempo esuberi – perché incapaci di esplodere –, ma soprattutto i giocatori che si sono dimostrati più forti e quindi più appetibili sul mercato.

Un ciclo continuo che ha prodotto nove bilanci consecutivi in utile, che ha portato il Borussia a raggiungere una un fatturato altissimo (490 milioni nell’esercizio 2018/2019), e che identifica e caratterizza l’identità del club ben oltre i suoi risultati, ben oltre lo stile di gioco. Al punto che il Guardian, dopo la cessione di Dembélé al Barcellona, ha scritto che il modello del Dortmund «funziona anche troppo bene, perché il passaggio del francese in una società di primo livello si è concretizzato prima del previsto, a cifre enormi (125 milioni), dopo una sola stagione in Germania». Al di là delle suggestioni, i risultati sportivi sono stati positivi ma mai davvero eccellenti: una vittoria in Coppa di Germania (2017), una in Supercoppa (2019) e un secondo posto in Bundesliga (2019); in Champions, il viaggio più lungo è durato fino ai quarti di finale (2017).

Il Borussia attua una strategia chiara e immodificabile, anzi se vogliamo è la massima espressione del modello sell-to-improve della Bundesliga – una lega che impone un sistema finanziario stringente e limitante per le società che vorrebbero trattenere i propri gioielli e invece sono costretti a cederli all’estero, oppure al Bayern Monaco. Il club giallonero opera in un contesto tecnico ed economico che ha contribuito a creare e a nobilitare, che continua a determinare con la sua operatività; solo che ora la sensazione di mancata crescita inizia a essere sgradevole, la semplice valorizzazione del talento sembra non poter più bastare se non vengono centrati grandi successi. È un giudizio condiviso, cioè è esterno ma anche interno alla stessa società: pochi giorni fa, infatti, il presidente Hans-Joachim Watzke ha rilasciato un’intervista al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung in cui ha spiegato come il Borussia debba «innamorarsi anche delle vittorie, non solo del proprio bel calcio. Non siamo mai stati così coerenti come in questo momento storico, ora però dobbiamo cercare di affermarci come squadra favorita per il titolo in ogni stagione. Per arrivare a questo livello, è necessario rimanere concentrati in tutte le partite, per 95 minuti».

Axel Witsel è alla seconda stagione al Borussia Dortmund dopo un’esperienza di un anno e mezzo in Cina (Sebastian Widmann/Getty Images)

Le considerazioni di Watzke sono un po’ severe, e indubbiamente influenzate dal rendimento altalenante in questo inizio di stagione – il Borussia ha messo insieme tre pareggi e una sconfitta nelle prime otto giornate di Bundesliga, tra l’altro le mancate vittorie sono arrivate contro squadre abbordabili come Union Berlin (1-3), Werder Brema (2-2) e Friburgo (2-2) –, e forse anche dal ricordo fresco e doloroso della rimonta subita un anno fa, quando il Bayern recuperò nove punti di svantaggio dalla 15esima giornata in poi, vincendo il titolo con due lunghezze di margine sulla squadra di Favre.

Allo stesso tempo, però, è difficile non essere d’accordo con il presidente del Dortmund, anche alla luce di quanto è avvenuto nell’ultima estate: per la prima volta dal 2014 – quando il Borussia investì oltre 60 milioni in giocatori acquistati senza incassare nulla dalle cessioni – la società ha deciso di esporsi con una cifra importante sul mercato: il disavanzo tra operazioni in entrata e in uscita è di 54 milioni (dati Transfermarkt) e l’unico addio eccellente è stato quello di Diallo, passato al Psg per 32 milioni di euro. Sono arrivati Schulz, Brandt e Thorgen Hazard, è tornato Hummels, è stato riscattato Paco Alcácer, soprattutto è stato trattenuto Jadon Sancho. Insomma, il modello Dortmund non è stato del tutto stravolto, ma è evidente come la dirigenza abbia cercato di dare un impulso differente rispetto al recente passato. Non è un caso che il presidente Watzke, sempre nell’intervista a Süddeutsche Zeitung, abbia stuzzicato anche l’allenatore Favre: «Non ho dubbi sul suo lavoro, ma lui e lo staff tecnico hanno il compito di analizzare e migliorare la situazione. Dobbiamo diventare più efficaci anche in partite apparentemente semplici, contro avversari di livello più basso».

Nelle prime due giornate di Champions League, il Borussia ha pareggiato 0-0 con il Barcellona a Dortmund e ha battuto per 2-0 in trasferta lo Slavia Praga (Sebastian Widmann/Getty Images)

Insomma, tutti si aspettavano e si aspettano qualcosa di più dal Borussia Dortmund, magari un grande trofeo che coroni la crescita politica e finanziaria della società. Il fantasma di Klopp e dei suoi successi (l’ultimo titolo nazionale resta quello conquistato nel 2012 dall’attuale tecnico del Liverpool) aleggiano ancora sul Signal Iduna Park, Watzke ha raccontato nella sua autobiografia, uscita pochi giorni fa, di aver proposto all’allenatore tedesco di tornare a Dortmund, nel 2018, ma l’offerta è stata rifiutata. La differenza rispetto al ciclo di Klopp, però, è evidente: il Borussia di nove anni fa era una squadra che riuscì a ribaltare le gerarchie della Bundesliga e del calcio europeo solo al termine di un percorso dilatato negli anni, caratterizzato da poche grandi cessioni (tra i giocatori più riconoscibili, solo Sahin e Kagawa lasciarono la Germania tra il 2009 e il 2012) e da una maturazione costruita sul campo di allenamento, attraverso il perfezionamento di un sistema di gioco rivoluzionario. Negli ultimi anni è mancata questo tipo di identità, inoltre l’anagrafica della squadra (attualmente la rosa di Favre ha un’età media di 25,4 anni, la nona più bassa tra le 32 dei gironi di Champions League) contribuisce ad alimentare la percezione di inesperienza e ingenuità. Proprio in occasione dell’ultimo turno di campionato, ad esempio, Jadon Sancho è stato sospeso da Favre per motivi disciplinari – è tornato in ritardo dalla pausa per le Nazionali. 

La squadra che affronterà l’Inter in Champions League vive dunque un momento interlocutorio: ha costruito un modello perfetto per la propria dimensione, produce calcio e calciatori di altissimo livello, con costi sostenibili, ma allo stesso tempo l’esasperazione di questo stesso modello finisce con limitare l’evoluzione del club, o comunque la rende più complicata da portare a termine. L’impressione è che Borussia Dortmund sia arrivato a un punto di saturazione, è come se si stesse avvitando inevitabilmente e pericolosamente su sé stesso, anche perché c’è un senso di precarietà perenne: per esempio, è difficile pensare che il mancato addio di Sancho sia una scelta definitiva, in realtà la sua cessione è stata semplicemente rimandata, perché il Borussia non può competere con le offerte che arriveranno al giocatore e non può acquistare dei fuoriclasse che alimenterebbero un eventuale desiderio di Sancho di restare a Dortmund. Il Borussia è penalizzato dal contesto della Bundesliga e forse dal ricordo del fallimento sfiorato a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila: vent’anni fa, gli enormi investimenti fatti per vincere la Champions League 1997 e mantenere quello status portarono a un enorme indebitamento. Oggi, proprio per evitare che la storia si ripeta, il Borussia vive e alimenta un cortocircuito: il suo infinito progetto-giovani assicura un calcio irriverente e divertente, ma emana anche una sensazione di stagnazione, perché i trofei arrivano faticosamente, anzi saltuariamente. E il vero problema è che non sembrano proprio esserci alternative.