Lautaro Martínez è un simbolo dell’Inter di oggi e di domani

Si è già integrato con Lukaku, ma può evolversi fino a diventare un top del suo ruolo.

I due gol segnati da Lautaro Martínez nelle prime tre partite di Champions Leauge, uno al Barcellona e uno al Borussia Dortumund, sono un piccolo riassunto dello stile di gioco dell’attaccante argentino, del suo modo di vivere e interpretare le partite. Nel primo in ordine temporale, quello segnato al Camp Nou contro il Barça, Lautaro attacca il campo aperto alle spalle della difesa blaugrana. Quando si trova a una ventina di metri dalla porta di ter Stegen, scatta per ricevere un passaggio lungo. A questo punto, già dal primo contatto con il pallone si notano due cose: l’intenzione di portarlo avanti il più velocemente possibile, e l’istinto di proteggerlo, come fosse la cosa più importante del mondo, dalla copertura in diagonale di Lenglet. Poi l’ingresso in area, ancora con il centrale francese incollato alle spalle, e il sinistro ad incrociare sul palo lontano, in scivolata.

Il gol contro il Borussia Dortmund, invece, si consuma nello spazio di poche istantanee che vanno dalla verticalizzazione di de Vrij al tiro: il lancio è calibrato alla perfezione, l’argentino galleggia sulla linea difensiva giallonera ed esplode in una frazione di secondo verso l’area, per incontrare il pallone all’altezza del dischetto, metterlo giù di petto e battere Burki, ancora in allungo, con una torsione del corpo e della caviglia quasi innaturale.

In queste due azioni c’è tutto Lautaro Martínez. Provare a descrivere il giocatore che si sta prendendo l’attacco dell’Inter vuol dire esplorare pregi e difetti di una punta con caratteristiche già molto ben definite, che sa esaltarsi fino a diventare devastante in alcuni contesti, ma ancora fatica a trovare una sua dimensione se cambia lo scenario tutto intorno. Quello di Lautaro Martínez è un racconto che, possibilmente, va oltre il suo soprannome – El Toro –, l’idea del guerriero in campo, del calciatore che porta un nome di un certo peso nell’epica sudamericana: Lautaro, appunto, è il nome del condottiero Mapuche che sconfisse le forze spagnole del governatore Pedro de Valdivia. Ma la figura di Lautaro Martínez, attaccante di Bahía Blanca ex Racing Avellaneda, va ben al di là  del semplice esercizio di retorica.

In campo, Lautaro è pura aggressività. È un attaccante che pensa il suo ruolo esclusivamente in funzione della porta. È un centravanti vero, ricalcato sull’ideale dell’attaccante moderno: un giocatore che sa accendersi in pochi secondi, sa scattare e scambiare a ritmi altissimi, e usare il corpo per conservare lo spazio e la posizione – cosa che può fare anche chi arriva a fatica al metro e settantacinque. Anzi, Lautaro ha bisogno di vivere ad alto ritmo, perché in situazioni più statiche risulta molto meno efficace e non ha ancora mostrato letture particolarmente sviluppate per inventare contro una difesa schierata.

Lautaro in azione contro il Barcellona: in match internazionali di club, l’attaccante argentino conta 19 presenze totali e 8 gol, 3 dei quali segnati con l’Inter tra Champions ed Europa League (Alex Caparros/Getty Images)

Lautaro dà il meglio di sé quando può attaccare in campo aperto, quando può rilasciare la sua energia in allungo, dimostrando, proprio come nel gol al Barcellona, una capacità istintiva nella protezione del pallone anche se lanciato verso la porta avversaria in una corsa ad alta intensità. Il suo modo di difendere la palla lo porta a creare continuamente duelli uno contro uno con i difensori avversari, duelli che nella maggior parte dei casi prova a risolvere superando il diretto marcatore con il fisico più che con la tecnica in dribbling o associandosi con i compagni – qualità che non gli mancano del tutto ma che ancora non sono per lui la miglior opzione. È qui che dovrà lavorare per fare il primo grande upgrade della sua carriera.

In questo senso, Lautaro è un giocatore piuttosto elementare, uno di quegli attaccanti che legge il calcio secondo un’idea lineare, che parte dai suoi piedi e punta verso la porta. Il contributo alla manovra, invece, è ancora da sgrezzare. Non ha l’istinto di cercare lo scambio o la rifinitura con la traccia filtrante. Anzi, è uno degli attaccanti che completa meno passaggi dell’intera Serie A (11,6 a partita), di cui appena il 17% sono appoggi all’indietro (a fronte di una media del 28% di retropassaggi degli altri attaccanti del campionato, dati Soccerment), con meno di un passaggio chiave a partita, e appena un assist realizzato nelle prime 12 uscite stagionali.

Martínez è alla seconda stagione in Italia: il suo score totale è di 15 gol in 47 presenze totali, di cui 10 in 36 partite di Serie A (Tullio M. Puglia/Getty Images)

Pregi e difetti del suo gioco, Lautaro li aveva fatti vedere già l’anno scorso. Ma solo in parte. Nascosto dalla figura di Icardi, che si prendeva tutti i minuti nello slot di centravanti – finché le cose non sono peggiorate improvvisamente –, Lautaro non aveva avuto l’opportunità di dimostrare pienamente fin dove potesse arrivare il suo rendimento, soprattutto in una squadra con ambizioni di alta classifica come l’Inter. È un discorso di minutaggio, ovviamente, ma anche di status e di aspettative sbagliate. Oggi, invece, il suo profilo si incastra perfettamente  nella nuova Inter di Antonio Conte, dove è già un pilastro del gioco offensivo. Era meno scontato, invece, lo sviluppo di una buona intesa, fin da subito, con Lukaku, con il quale condivide il titolo di miglior marcatore della squadra: sei reti in tutte le competizioni. I due attaccanti nerazzurri non sembrerebbero partner perfetti.

Due attaccanti non particolarmente associativi e non necessariamente complementari; due punte che vogliono correre in spazi ampi e chiudere l’azione quanto più vicino possibile alla porta, meglio se a un tocco. Eppure entrambi stanno dimostrando di poter lavorare in tandem e condividere gli spazi nell’ultimo terzo di campo, soprattutto se il belga si dedica – come sta facendo – a un lavoro di raccordo con il centrocampo che non è ancora pienamente nelle sue corde, muovendosi in orizzontale e offrendo linee di passaggio corte.

Lukaku e Martínez hanno giocato nove partite insieme dal primo minuto: il loro score totale è di 11 gol, sei per il belga e cinque per l’argentino, che aggiunge la rete segnata al Barça in assenza del compagno di reparto (Miguel Medina/AFP via Getty Images)

Proprio per differenziare il suo gioco da quello del compagno di reparto, Conte chiede a Martínez di attaccare la profondità e schiacciare la difesa avversaria verso la linea di fondo. È quel che gli riesce meglio, oggi. Ma anche per questo la sensazione è che per diventare qualcosa di più, per imporsi veramente in una squadra come l’Inter degli anni Venti che stanno per arrivare, Lautaro dovrebbe provare a sviluppare il suo talento dove è ancora più grezzo: i suoi limiti, così come le sue qualità, sono evidenti e mostrano ancora grandi margini di miglioramento. È per questo che oggi è considerato, con cognizione di causa, uno degli asset più importanti del club nerazzurro – si dice sia cercato anche dal Barcellona, che prima o poi dovrà sostituire Suarez. Conte, almeno in questa prima fase di stagione, ha trovato un attaccante su misura per il suo sistema e lo sta valorizzando al meglio per le sue caratteristiche, perché è quello che gli serve in questo momento.

Ma prima o poi l’Inter – intesa come società – avrà bisogno di capire fin dove può arrivare il talento di Lautaro, quanto vale davvero. Lui stesso dovrà lavorare per spingere ancora un po’ più in là i confini del suo gioco e trasformarsi in un attaccante completo. Lo stesso Conte potrebbe averne bisogno molto presto. La sua squadra non è ancora una macchina perfetta e ha più di qualche difficoltà ad attaccare contro difese schierate: e se le difficoltà di squadra si sovrappongono a quelle di un singolo giocatore, quest’ultimo è inevitabilmente uno degli elementi cardine del sistema. Oggi Lautaro è uno degli pezzi più importanti dell’Inter, del suo presente. Ma allo stesso tempo è l’uomo che più di tutti sembra poterne indirizzare il futuro nerazzurro. Dalla sua capacità di migliorare, di crescere là dove ne ha più bisogno – lui, prima della squadra – passa molto delle sorti del progetto di Conte, e dell’Inter.