Il calcio frammentato di Twitter

I social network hanno stravolto l'architettura della partita, e della sua fruizione.

Sto iniziando, ultimamente, a seguire il calcio in un modo nuovo: su Twitter. La mia squadra ha appena segnato, ma il Var ha annullato il gol. I tifosi della mia squadra sono infuriati, mentre ridono gli altri. Adesso abbiamo appena segnato il nostro primo gol. La clip dura 43 secondi e ha il commento in arabo. L’attaccante degli avversari è appena stato espulso… ma il tweet è di un’ora fa. E poi gli avversari pareggiano. Poi segnano ancora, adesso sono avanti. Un rigore. Il Var rovina il calcio. Oh, no! Sembra che abbiamo perso 3-2.

Dev’essere stata una bella partita, anche se i tweet che la raccontano non sono molto emozionanti. Ora invece la mia timeline è piena di tifosi che strepitano perché l’allenatore venga esonerato. Per concludere, le notizie sulla squadra arrivano tre ore dopo il fischio finale: l’attaccante che era stato espulso non ha fortunatamente nessun affaticamento muscolare, e dovrebbe riprendersi senza problemi.

Nella Poetica, Aristotele scrisse che tutti i drammi devono avere un fischio d’inizio, una fine primo tempo, e un triplice fischio finale. In realtà sarebbero un inizio, una metà, e una fine, ma è più o meno la stessa cosa. Un tempo, la narrazione del calcio seguiva i dettami di Aristotele: unità di tempo, luogo e azione. L’identità di protagonisti e antagonisti dipendeva da quale delle due squadre tifavi. E con un po’ di immaginazione, una partita poteva anche essere vista come uno sviluppo di temi quali hybris, nemesis, pathos, amartia, e tutte quelle cose che piacevano al pubblico dell’antica Grecia.

Non importava che tu fossi in uno stadio, davanti a una televisione o in ascolto da una radio: la natura lineare del calcio sembrava immutabile. Eppure i social media hanno cambiato tutto. Sempre più tifosi si trovano a fruire il calcio attraverso gli schermi dei loro smartphone, anziché dal vivo o in tv: guardano clip tagliate e highlights, e su queste impostano poi tutta la conversazione della settimana. L’architettura dei 90 minuti, un tempo sacra, è stata stravolta. I ritmi e i dettagli, il vero midollo di ogni partita, smembrati. Le interpretazioni delle azioni di commentatori e tifosi (a grandi linee l’equivalente del coro greco delle tragedie) sono diventate il focus dell’attenzione.

Stanley Kubrick, forse il più grande costruttore di storie nel cinema, era un grande appassionato di sport, e cercava di distillare la tipica tensione del cosa-succede-dopo nei suoi film. Era anche convinto che ci fosse qualcosa di spirituale nel modo in cui l’enorme pubblico globale condivideva la tensione e l’eccitazione, momento dopo momento, nel guardare una partita di cartello di un Mondiale (e, tra parentesi, amava il catenaccio: considerava lo stile di gioco italiano psicologicamente interessante). A differenza di altri virtuosi del cinema, Kubrick non si è mai dilettato a giocare con le strutture temporali: allo stesso modo di una partita di calcio epica, i suoi film (soprattutto Barry Lyndon e Il dottor Stranamore) sono caratterizzati da una tensione costante, e piacevolmente lineari.

Durante l’ultima Coppa del Mondo, i tweet sulle partite hanno generato 115 miliardi di interazioni (Money Sharma/AFP via Getty Images)

Ma l’uso di Twitter e YouTube, in realtà, ci stanno avvicinando piuttosto al mondo del regista francese Jean-Luc Godard: i suoi giocatori preferiti erano gli improvvisatori anarchici dell’Ungheria nell’era di Puskas o dell’Ajax di Cruijff. In Pierrot le fou compare il regista americano Sam Fuller, che in un cameo definisce il cinema in un modo che si potrebbe applicare benissimo anche al calcio: «Un film è come un campo di battaglia. Amore, odio, azione, morte. In una parola, emozione».

Ma Godard, ed è un dettaglio importante, non era affatto appassionato di linearità: preferiva le sue narrazioni frammentate, proprio come quelle di oggi su Twitter. «Una storia dovrebbe avere un inizio, una metà e una fine», disse una volta, «ma non necessariamente in quest’ordine».

Dal numero 30 di Undici