Vincente e accerchiato: la vita anomala di Valverde al Barcellona

Secondo i critici, non ha vinto la Champions e ha diluito troppo l'identità del Barça.

Nella vittoria per 5-2 di sabato scorso contro il Maiorca, il Barcellona ha tirato fuori una delle migliori prestazioni della stagione. Una versione dei blaugrana che sembra distante, nel tempo e nello stile, da quella cui ci stavamo abituando. Come un Barça di qualche stagione fa: forte nella riaggressione dopo una palla persa, nella creazione di occasioni pericolose, nel possesso alimentato e riciclato fino alla successiva palla gol. Poi c’è anche una tripletta di Messi, che ormai quasi non fa notizia – è la 35esima, più di chiunque altro in Liga. Il dato che forse più di tutti riassume questa superiorità riguarda il portiere avversario, Manolo Reina: oltre i cinque gol subiti ci sono anche 14 parate, il valore più alto registrato da un portiere dei cinque maggiori campionati europei in questa stagione.

Così, una volta tanto, Ernesto Valverde non ha ricevuto critiche, neanche sui temi su cui solitamente viene ripreso: risultato, qualità del gioco, prestazione dell’uomo più importante della squadra. Sono argomenti che si prestano a interpretazioni e valutazioni soggettive – anche quelli che non lo sembrano, come i trofei vinti – e che in questi anni hanno portano a reazioni di ogni tipo, dai complimenti alle critiche più dirette. El Txingurri ha vinto due campionati nei primi due anni alla guida del Barcellona, li ha accompagnati con una Coppa del Re e una Supercoppa di Spagna. È sembrato quasi scontato che il Barça vincesse quattro trofei in due anni, come se avesse normalizzato la vittoria – merito anche dei suoi predecessori, in totale hanno vinto 8 degli ultimi 11 campionati – e non può che essere una nota di merito per Valverde, che ha dato alla squadra una continuità incredibile. Come ha scritto Sid Lowe sul Guardian, dopo l’ultima Liga vinta, «il Barcellona ha fatto apparire normale, addirittura prevedibile, un successo che invece è straordinario».

Ma forse non basta, nel senso che i risultati dell’ex allenatore dell’Athletic Club di Bilbao non vengono letti in maniera univoca. C’entra il fatto che la Champions League ha relativizzato il valore dei campionati nazionali, rendendoli secondari nella valutazione di una stagione. L’ultimo trionfo del Barça in Europa è datato 2015, e per alcuni è una catastrofe – che poi, nel frattempo andrebbe evidenziato come solo due squadre abbiano sollevato quel trofeo, e sono passati quattro anni, non dieci o venti. In un articolo di preview di questa stagione, il Guardian scriveva: «Essere il migliore in Liga non è abbastanza. È per questo che hanno appena firmato il miglior giocatore dell’Atlético (Griezmann, ndr), perché hanno firmato Frenkie de Jong e perché l’era migliore della loro storia rischia di essere trascurata, vittime del loro stesso successo. In Europa sono passati quattro anni da quando hanno vinto. Quel trofeo, quello che Messi ha puntato da un paio d’anni, sarà l’unico elemento che definirà la stagione blaugrana. Se questo sia giusto, poi, è un’altra domanda».

Il giudizio di valore sui trofei vinti da Valverde passa, però, in secondo piano rispetto ai commenti sul gioco, che vanno da un estremo all’altro. Un dato di fatto è che nelle ultime stagioni il calcio dei blaugrana è cambiato, si è evoluto. È stata una trasformazione necessaria, almeno in parte. Il Barcellona aveva iniziato un processo di transizione già con Luis Enrique, e Valverde è stato costretto ad assecondarlo inserendosi in quel solco. Oggi il Barça non è necessariamente una squadra maniaca del controllo. La sua proattività non si misura soltanto dal rapporto con il pallone, con il dato del possesso palla, che è in calo se si guardano i numeri sul lungo periodo – vanno dal 70%, o quasi, di Guardiola, al 60% mal contato di Valverde, passando per la via di mezzo di Luis Enrique.

Ma questa evoluzione è servita soprattutto a tenere il Barcellona incollato alla realtà del calcio europeo, che nel frattempo viaggiava verso un gioco sempre più dinamico, frenetico e difficile da controllare con gli stessi strumenti che usava il Barcellona che ha dominato a cavallo tra gli anni Zero e Dieci, con Guardiola per esempio – pur mantenendo la possibilità di rispettare gli stessi principi di base. Non a caso le ultime squadre che hanno vinto la Champions League sono il Real Madrid di Zidane e il Liverpool di Klopp: una squadra che preferiva controllare i momenti più che l’andamento della partita, e una che moltiplica le sue possibilità di vittoria quando il ritmo del suo gioco si alza fino a diventare insostenibile per chiunque.

Prima del Barça, Valverde ha guidato l’Athletic Bilbao (in due periodi diversi), l’Espanyol, l’Olympiakos (in due periodi diversi), il Villarreal e il Valencia (Alex Caparros/Getty Images)

Dopo la vittoria per 3-0 nella semifinale d’andata proprio contro il Liverpool, in primavera, prima del tracollo ad Anfield, Valverde aveva raccolto complimenti soprattutto per l’intuizione di schierare Arturo Vidal in mezzo, al posto del brasiliano Arthur Melo, giocatore fondamentale per controllare i ritmi della partita e ordinare la squadra. La scelta del cileno era stata determinante per contrastare l’intensità del gioco dei Reds sulla fascia di Robertson e Mané. Un chiaro esempio di come il Barcellona sia diventato, con Valverde, una squadra molto più razionale, molto più equilibrata, di quanto non lo fosse prima. Non obbligata a scegliere come priorità l’opzione più votata al controllo del possesso. Non tutti, però, hanno saputo accettare e apprezzare questa trasformazione.

Più che di spettacolo e intrattenimento, è una questione di identità, quella che Valverde ha diluito dal suo arrivo al Camp Nou. Il cambiamento sta portando risultati, vero, ma il Barcellona ha una precisa tradizione che va rispettata in ogni aspetto tecnico e gestionale, dal campo ai giovani della Masia e ai vertici societari, e che non può essere intaccata; normalizzare il Barça significa disperdere quell’idea di club che si distingue da tutti gli altri, un’idea che necessariamente sopravvive agli allenatori, anche ai più rappresentativi come Cruijff, van Gaal e Guardiola. Lo ha spiegato Gerard Piqué dopo una vittoria più sofferta del previsto a Butarque, casa del Leganés: «Prima la vittoria. Però dobbiamo migliorare nel gioco, è primordiale per noi». Sembra quasi una contraddizione, ma spiega lo scollamento tra il pragmatismo di Valverde e la cultura del club catalano. Un esempio dalla prospettiva opposta per chiarire: quando in un weekend di metà settembre 2008 Guardiola, al primo anno sulla panchina del Barcellona, pareggiò contro il Racing di Santander, si poté dire soddisfatto della partita, dell’atteggiamento dei suoi giocatori. Senza sembrare matto. Anzi, aveva attirato gli elogi di una leggenda del club come Johan Cuijff, che dalle parti del Camp Nou era come vedersi apporre una medaglia al valore sul petto.

Quella partita contro il Leganés il Barcellona l’aveva ripresa partendo dal sinistro di Messi, che ha disegnato l’assist per il gol del pari di Suárez dopo lo svantaggio iniziale. E proprio Messi è, per assurdo, un altro motivo di critiche per Valverde. Perché il tecnico lo ha – ancora più – messo al centro di tutto, sia geograficamente che idealmente. Appena lo scorso aprile Ramón Besa su El Pais elogiava la capacità del tecnico di creare una connessione, «un legame umano speciale con il suo giocatore migliore, proprio come aveva fanno Rijkaard con Ronaldinho». Il rapporto privilegiato con l’allenatore negli anni in cui ha scollinato i trenta ha sicuramente aiutato Messi nella sua transizione verso il giocatore che sarà nel finale di carriera – in parte lo stiamo già vedendo.

Dall’arrivo di Valverde sulla panchina del Barcellona, Messi ha segnato 110 gol in 119 partite (Alex Caparros/Getty Images)

Pur di mettere Messi nella sua comfort zone, però, Valverde ha finito per ragionare soltanto in funzione del suo talento, nella speranza che coprisse le piccole mancanze del sistema e degli altri dieci giocatori in campo. Valverde è stato ripagato nella sua scelta se si considera il rendimento di Messi nelle ultime stagioni, sempre decisivo nelle partite più complesse – e in questo senso il sesto Pallone d’Oro non può essere casuale. Ma proprio questo diventa motivo di critica per lo stesso allenatore, che avrebbe nell’argentino un alibi: sarebbe “salvato” da un giocatore eccezionale tutte le volte che la sua squadra non è in grado di rendere come dovrebbe. E anzi el Txingurri avrebbe sprecato, se così si può dire, questi anni di onnipotenza dell’argentino senza vincere la Champions League. Immaginando un futuro calo di Messi, le possibilità di vincerla con questo rendimento di squadra sarebbero praticamente nulle, almeno secondo i detrattori.

Valverde è accerchiato. Per ogni segmento della sua esperienza al Barcellona esistono delle voci critiche che provano a sovrastare quanto di buono c’è nel suo lavoro. Un paradosso nel quale è incastrato nonostante i risultati, nonostante le sue capacità di lettura del gioco, della sua squadra e del panorama calcistico in generale, nonostante sia riuscito a creare un ottimo legame con il suo miglior giocatore. Quel che gli è mancato sin qui, però, supera tutto questo, va al di là delle prestazioni e dei risultati, al di fuori del campo, e ha a che fare con il Barcellona, con quel che significa il Barça nel calcio e quel che la società blaugrana rappresenta in questo particolare momento storico per il resto della Spagna. Pensare di far passare tutto questo e uscirne indenne è utopia. Magari con una Champions in più in bacheca avrebbe un argomento bello grosso da poter utilizzare in proprio favore.