L’uragano Jairzinho

Ha compiuto 75 anni uno dei laterali più forti di sempre. Anzi, il migliore di sempre, secondo le sue parole. Dopo Garrincha.

È nato il giorno di Natale. Come Gesù, ma anche come Humphrey Bogart e Louise Bourgeois. Soltanto questo non basta a renderlo un tipo speciale, ma lui, Jair Ventura Filho, in arte Jairzinho, ci ha messo molto del suo per diventare una delle stelle più luminose del calcio. Uno di quei talenti brasiliani cresciuti a pane e Garrincha, che – segno del destino – fin da bambino viveva in rua Jair Zheneral Severiano a Rio de Janeiro, proprio ad una manciata di passi dalla sede del Botafogo, storico club carioca in cui giocavano superstar come Nilton Santos, Didí e lo stesso Mané (il nomignolo con cui era chiamato Garrincha).

Jairzinho ha appena compiuto 75 anni, tre quarti di secolo in cui ha vinto tutto quello che c’era da vincere: un Mondiale, un oro ai Giochi panamericani, una Copa Libertadores, due campionati carioca e una Taça Brasil (una sorta di corrispettivo verdeoro della FA Cup inglese). In Nazionale ha segnato 35 reti su un totale di 82 incontri disputati. Il più importante di tutti, il 21 giugno del 1970 allo Stadio Azteca di Città del Messico, nella finale del Mondiale giocata proprio contro gli Azzurri di Valcareggi. Ma non c’era alcuna acredine contro di noi: Jairzinho aveva rifilato gol a tutte le squadre incontrate in quella competizione. Due gol, nella partita di esordio, alla Cecoslovacchia, uno all’Inghilterra, un altro alla Romania. Poi una rete al Perù nei quarti di finale e un’altra ancora nel durissimo 3-1 con cui la Seleção eliminò l’Uruguay in semifinale. «Avremmo vinto quel titolo contro chiunque», ha ricordato l’ex campione. «Giocavamo in modo inimmaginabile. Ci eravamo allenati per tre mesi dentro una caserma. Tutti avevamo un solo obiettivo: vincere. Ma soprattutto avevamo la testa. E quando hai la testa, ti organizzi. Non hai bisogno di un allenatore che ti dica cosa devi fare e come comportarti. Sapevamo come difenderci, come attaccare, come muoverci per sorprendere l’avversario. Il calcio è dinamico. Non tattico. E noi eravamo una macchina perfetta».

Il suo è stato un talento costruito fin da bambino, quando giocava a futebol de salão in spiaggia, per affinare tecnica e palleggio. «Da noi si impara a giocare in mezzo alla natura», ha raccontato, «la sabbia di Rio de Janeiro ti forgia. Ti dà migliori polmoni, resistenza, velocità, muscoli. Polpacci stretti e quadricipiti solidi. In Europa forse hai posti migliori dove scolpire il corpo. Ma sembra quasi un lavoro. In Brasile è tutta un’altra cosa». Nelle giovanili del Botafogo mette in bacheca tre titoli juniores consecutivi. Poi trova un posto in prima squadra. È il 1963. La maglia numero 7 e la fascia sono proprietà privata dell’idolo Garrincha, così Jair Ventura Filho si ricicla attaccante centrale. La svolta tattica arriva due anni più tardi, quando il vecchio campione, Alegria do povo, ricco e sazio di successi, si ritira e gli lascia il testimone. La squadra di Rio cambia radicalmente il modo di giocare. Se Mané era tutto dribbling e fantasia, Jairizinho è un fantastico mix di progressione, resistenza fisica e potenza (tanto che viene soprannominato Hurricane, uragano) a cui unisce un’ottima tecnica di base.

Senza far troppa attenzione all’umiltà, si definisce il miglior numero 7 della storia del Brasile. Garrincha a parte. «Sì, perché Garrincha era unico in tutto. In ogni singolo movimento. Nessuno sapeva dove sarebbe andato. Nessun avversario. Neanche lui lo sapeva. Era solo improvvisazione. Il calcio non è mai stato un lavoro per lui. Gli piaceva e basta. E quella era l’unica ragione per cui poteva dare gioia. Di talenti così ne nascono uno ogni 100 anni. Era il più grande di tutti. Più grande anche di Pelé».

Nel 1967 altra svolta: Jairzinho decide di cambiare ruolo e numero di maglia. Da ala torna in mezzo al campo, gioca trequartista avanzato, a volte fa il centravanti. Nel Botafogo giocano campioni come Gerson, Alfonsinho, Paulo Cesar Cajú. Ma la sua è la stella più lucente. Il dream team vince due titoli consecutivi dello Stato di Rio de Janeiro, l’Estadual nel ‘67 e nel ‘68 e la prestigiosa Taça Brasil (in quegli anni non esisteva ancora il Brasileirão), unica vera competizione che riesce a coinvolgere tutte le squadre del Brasile.

Mario Zagallo (a destra) ha allenato Jairzinho al Botafogo e poi in occasione di due Mondiali giocati dalla Nazionale brasiliana, nel 1970 e nel 1974 (Photo by Keystone/Getty Images)

Nel 1969 si frattura quarto e il quinto metatarso. Jairzinho in convalescenza si avvicina ancora di più a Dio. Prega molto e guarisce. «Come potrei non essere credente», dice: «A novembre ho rotto le ossa. Ci hanno infilato dentro un chiodo. E l’anno dopo sono diventato campione del mondo». Il 1970, come detto, è uno degli anni più straordinari. Il trequartista ha 26 anni. Gioca e vince i Mondiali in Messico da protagonista. Ma quattro anni più tardi in Germania non è altrettanto fortunato. Nel 1974 lascia Rio e si trasferisce in Europa.

Ma resta sempre in riva al mare: da Copacabana passa all’ansa dei Catalans, a Marsiglia. È un’avventura che dura una sola stagione. Jairzinho è depresso, non si trova coi compagni. La Ligue 1 non è il suo campionato. Di quell’anno ci si ricorda di lui non tanto delle reti (9 su 18 incontri) quanto per l’aggressione a un guardalinee, reo di averlo fermato per un fallo inesistente mentre si stava involando a rete.

Così finiva una seduta di allenamento del Brasile durante la preparazione per i Mondiali del 1974: Jairzinho è il primo da destra, insieme a lui ci sono Valdomiro (primo da sinistra), Rivelino (al centro) e Wilson Piazza (accosciato)

Torna in Brasile nel 1976. Sembra iniziata la sua parabola discendente, ma non ancora è così. Sceglie lo Stato del Minas Gerais per la sua rinascita e firma per il Cruzeiro di Belo Horizonte. A 31 anni fa suo il campionato Mineiro e l’anno dopo la coppa Libertadores, sconfiggendo nella “bella” gli argentini del River Plate per 3-2. Poi vola in Venezuela dove firma un contratto con il Portuguesa de Acarigua e raggiunge a sorpresa la semifinale della  Libertadores. È il suo canto del cigno. L’anno dopo si trasferisce nel Wilsterman in Bolivia e poi al São Paulo, nel Noroeste di Baurú. Un breve ritorno all’amatissimo Botafogo nella stagione 1981/82 (in totale per i bianconeri segnerà 186 reti) per poi chiudere definitivamente la carriera a Guayaquil, in Ecuador nelle fila dei biancazzurri del Nueve de Outubro.

Dopo il ritiro, ha fatto l’allenatore in Grecia e in Africa, è stato talent scout del Cruzeiro (se Ronaldo Nazário è diventato il Fenomeno è anche per merito suo) e si è candidato alla carica di consigliere comunale per il comune di Rio de Janeiro nel 2008. Oggi Jairzinho ha soffiato, come detto, su 75 candeline e può raccontare ai nipotini di essere stato l’unico giocatore della storia ad aver segnato in tutte le partite di un’edizione dei Mondiali (1970), compresa la finale. Un record che lo consacra nell’olimpo dei calciatori più forti di sempre.