In uno studio pubblicato nel libro The Vanishing Paper, Philip Meyer ha calcolato che la crisi dell’editoria porterà all’estinzione dei giornali di carta, e che quindi l’ultima copia fisica del New York Times sarà venduta nel 2043. Allo stesso modo, forse, anche il calcio è pronto a cambiare visceralmente. Un processo iniziato già nel 2016 quando comparì il VAR: per molti fu una rivoluzione, per altri fu una normale conseguenza. E adesso maturano nuove rivoluzioni e idee progressiste. Perché il calcio contemporaneo vive soprattutto di metacampo — business, geopolitica, spettacolo televisivo — e non è un caso che nel 2019 sia tornata d’attualità l’ipotesi di una Superlega europea, un progetto per cui i club più danarosi e vincenti d’Europa si uniscano in un solo torneo. Il guadagno economico di chi è abituato a vincere non basta più e dunque cerca qualcosa che vada oltre la remunerazione garantita dal suo bacino nazionale.
Un discorso molto simile lo stanno facendo anche squadre finanziariamente meno forti ma comunque vincenti. I top club d’Olanda, del Belgio, della Scozia e dei Paesi scandinavi, negli anni, hanno premuto affinché ci si possa aprire a questa idea dei campionati uniti, o meglio, una koiné che riunisca squadre di diversi paesi che si affrontano ogni anno come in un vero e proprio torneo sovranazionale. La prima proposta è stata quella di accorpare le squadre scandinave, oppure le belghe e le olandesi, anche se di ufficiale, per ora, non c’è stato nulla. Nello specifico, aggregare i campionati di Belgio e Olanda (già nominata BeNe) sarebbe l’incrocio più comodo da attuare fra quelli possibili.
Il concetto sarebbe unire leghe di seconda fascia, geograficamente confinanti fra loro, in un campionato a 18 squadre. In questo contesto il caso di Paesi Bassi e Belgio presenta alcuni aspetti positivi, innanzitutto spaziali. Fra Bruxelles e Amsterdam ci sono 207 chilometri, 116 da Eindhoven e Liegi, 183 da Rotterdam a Genk; distanze poco estese che in Italia corrispondono circa allo spazio che unisce Bologna con Milano. Dunque le trasferte sarebbero molto gestibili con qualsiasi mezzo, e le stesse squadre, nei tragitti, potrebbero anche evitare l’aereo scegliendo il treno — opzione oltretutto ecologica e sostenibile e già utilizzata da molti club in questione. A livello economico i due stati sono molto tangenti – Belgio e Paesi Bassi hanno concluso con il Lussemburgo un accordo commerciale noto come Benelux. Soprattutto, i due Paesi hanno avuto già un’esperienza calcistica comune con la BeNe League femminile, torneo durato dal 2012 al 2015. La proposta di unirsi era arrivata anche da parte dei campionati scandinavi, e ci sono possibilità di fusione fra club nordici e del centro Europa.
Ad aiutare queste congiunzioni potrebbe esserci un fattore alla lingua franca: i paesi interessati hanno tutti un sostrato comunicativo comune, cioè un inglese advanced. La società Education First ha stilato nel 2018 una classifica dei migliori paesi per la comunicazione in lingua inglese, e alla sommità dell’elenco apparivano (in ordine) Paesi Bassi, Svezia, Danimarca e Norvegia; il Belgio era nono in questa classifica. Questo, unito al concetto delle distanze e al logico aumento dei ricavi, rende l’idea di una lega sovranazionale più realistica e funzionale. Fra tutte le soluzioni, però, è difficile pensare di poter unire in un solo torneo le migliori squadre scandinave e quelle belghe e dei Paesi Bassi: peserebbero le distanze geografiche e le differenze climatiche in cui si giocano i diversi campionati. Le leghe scandinave infatti fanno partire i propri tornei a marzo e li concludono in ottobre, mentre l’Eredivisie e la Pro League belga iniziano in agosto. Meno complessa invece potrebbe essere la realizzazione di due identità sovranazionali slegate fra loro: la Lega Nordica — già proposta e disegnata ma senza ancora una presentazione ufficiale — e quella della BeNe League. Ottimale, da questo punto di vista, anche la già proposta integrazioni dei club scozzesi alla Premier League, un’operazione già prospettata da diversi addetti ai lavori.
Tra gli aspetti positivi, l’integrazione di più realtà aumenterebbe la spettacolarità del torneo aumentando la possibilità di ulteriori guadagni dai broadcaster; si arriverebbe da un lato a un livello di calcio superiore, dall’altro a una commercializzazione più ampia dei club all’estero. Il giornalista economico Marco Bellinazzo spiega che «le dinamiche economiche stanno cambiando il calcio europeo, al punto da imporre queste trasformazioni oramai vitali per alcune aree geografiche, poiché i soldi si concentrano solo in determinati campionati, i top five d’Europa. Paesi come la Svezia o il Belgio devono acquisire visibilità sia per i media tradizionali che per i new media. Diventa inevitabile per loro accomunarsi così da avere avere maggiori profitti, e c’è da dire che sarebbero aiutati pure da comunanze storiche e culturali. In altri sport la cosa funziona (pallavolo e hockey, ndr) e anche nei territori del Golfo persico avevano pensato a un’iniziativa del genere».
Dunque lo sport può andare dove non è arrivata la politica, e può farlo grazie a motivi economici: «Il calcio», spiega ancora Bellinazzo, «rappresenta un fattore identitario per le popolazioni ed è visto come sentimento di unità nazionale, perciò non è facile slegarlo da certe realtà. Ma queste unioni sono una mossa tanto intelligente quanto vitale per i club che concorrono in Europa, e il ritorno economico per queste realtà è assicurato in termini di sponsor e broadcasting». Un concetto sposato anche dal presidente del Club Brugge Bart Verhaeghe che ha detto: «I club iscritti a questa nuova lega in fase di progettazione potrebbero tornare ad avere un ruolo centrale in Europa, anche perché punterebbero a contratti televisivi molto più remunerativi».
L’obiettivo finale è perciò quello del miglioramento economico e mediatico del club, ma non rimane laterale il progresso in campo. Negli ultimi dieci anni l’Ajax è stata l’unica squadra non iscritta a una delle cinque leghe top (Premier, Liga, Serie A, Bundesliga e Ligue 1) ad arrivare alla semifinale di Champions League; il club di Amsterdam, inoltre, è stato finalista in Europa League nel 2015; gli altri percorsi significativi in Europa sono stati quelli dell’Anderlecht (tre volte ai quarti di Europa League), Copenaghen (una volta agli ottavi di Champions e una volta agli ottavi di Europa League) e del Genk (una volta agli ottavi di Europa League. Il resto è poco considerevole. Pure in Scozia, da molti anni, i dirigenti del Celtic lamentano la scarsa adeguatezza del campionato al livello della rosa biancoverde, con la conseguenza che in Europa, nei confronti internazionali, non si riesce a pareggiare la qualità degli avversari. Un concetto parallelo a quanto discusso spesso in Italia sulle proprietà allenanti della Serie A per squadre di vertice in preparazione alle sfide europee. Anche per questo si cerca una maggiore competitività interna: per preparasi più adeguatamente agli incontri internazionali.
Persistono comunque delle notevoli complicazioni per concretizzare progetti del genere, a partire dalla gestione delle squadre escluse dai nuovi tornei o la collocazione nelle competizioni UEFA dei vincenti delle leghe sovranazionali. Inevitabile però è anche il progressivo soffocamento dei format attuali dei campionati nazionali, per cui la creazione della sovrastruttura multinazionale è necessaria. Ma se questo concetto di torneo ha un senso per realtà laterali come quelle scandinave o belghe, meno può averlo — attualmente — per una competizione fra soli top club. La lega sovranazionale può funzionare per coincidenze e vicinanza dei campionati, mentre una Superlega i cui sfidanti sono solo realtà al massimo del loro potenziale ha ancora dei punti di difficile attuazione. Questo è un cambiamento che avverrà ineluttabilmente, ma per ora il calcio sembra poter vivere anche senza una Superlega partecipata solo dai super ricchi. Anzi, sarebbe più utile dare più possibilità a realtà finora adombrate.