Nove regioni rappresentate su venti, quattro delle quali con appena un giocatore a testa. Un miglioramento, rispetto a Mondiali e Sei Nazioni disputati nel 2019, quando fra i convocati c’erano giocatori di appena sette regioni. Ad alzare la media è la scelta del coach dell’Italia di rugby, Franco Smith, di inserire in lista il flanker siciliano Giovanni Licata e il talentuoso seconda linea fiorentino Niccolò Cannone, all’esordio con la maglia azzurra.
È questo quadro, più di tante altre riflessioni tecniche, a spiegare in maniera plastica il problema atavico del rugby italiano, incapace di portare la palla ovale fuori dalle sue aree tradizionali, e di utilizzare i copiosi finanziamenti legati alla partecipazione annuale al torneo rugbistico più antico del mondo, il Six Nations appunto (parliamo di almeno 25 milioni di euro, fra distribuzione e indotto), per promuovere in maniera capillare il mondo di Ovalia su tutto il territorio nazionale. Il rugby italiano continua a essere uno sport a trazione veneta, con il supporto di Emilia-Romagna e della città di Roma.
All’ultimo Mondiale erano appena dodici i ragazzi in squadra arrivati dalla scuola federale, meno del 5%, con addirittura nove giocatori su trentuno non solo mai passati dall’accademia, ma addirittura di formazione stranieraIl fallimento più plateale della gestione politica del rugby nazionale è il progetto delle Accademie giovanili, le costosissime scuole di eccellenza, fondate nel 2006, che avrebbero dovuto aiutare la preparazione all’alto livello di decine di giovani giocatori, tolti ai club e trasferiti nei centri tecnici federali proprio con l’obiettivo di esaltarne il potenziale sportivo. Purtroppo i risultati raccontano però un’altra storia. Tenendo come riferimento le ultime due convocazioni e un’età compresa fra i 20 e i 33 anni, sono circa 300 i giocatori formati negli ultimi quattordici anni dall’Accademia Nazionale Ivan Francescato e che dovrebbero risultare disponibili per indossare oggi la maglia azzurra. Eppure, all’ultimo Mondiale erano appena dodici i ragazzi in squadra arrivati dalla scuola federale, meno del 5%, con addirittura nove giocatori su trentuno non solo mai passati dall’accademia, ma addirittura di formazione straniera. In tanti ritengono che la struttura dell’Accademia penalizzi lo scouting dei nuovi talenti, creando uno scollamento fra campionati e selezioni nazionali. Fra le diverse ragioni addotte, è la sovrapposizione dei ruoli tecnici di Accademie e Nazionali giovanili, spesso assegnati alle medesime persone, a sembrare la più fondata: a meno di casi particolari, al momento delle convocazioni gli allenatori preferiscono puntare sui ragazzi che vedono costantemente, piuttosto che su eventuali nuovi giocatori esterni alle accademie ed emersi nel corso della stagione.
La distanza fra club, campionati e squadre nazionali è ben fotografata dal finale di stagione 2019, con i Mondiali Under 20, disputati in Argentina, in calendario contemporaneamente alle finali dei campionati italiani di Serie A, U18 e U16. Così, mentre la nazionale giovanile preparava la World Cup di categoria nel ritiro di Redemello, in provincia di Brescia (la stessa sede dell’Accademia Nazionale), decine di giocatori in grado di poter almeno ambire a una maglia azzurra Under 20 giocavano le ultime giornate di stagione regolare. Un sistema evidentemente poco funzionale, che peraltro mortifica il valore più alto di una convocazione in Nazionale: il merito sul campo.
C’è poi, appunto, la questione regionale. La Federazione, passata dai 4 milioni di euro di bilancio del 1997 ai quasi 50 che ormai stabilmente dichiara da oltre quindici anni, non è riuscita a sostenere il rugby oltre i suoi confini tradizionali. Tralasciando casi limite come Calabria, Molise e Basilicata, dove i praticanti sono in totale ben meno di 2000, ci sono regioni come Campania, Puglia e Sicilia, in cui il rugby ha un radicamento di lungo corso e che ancora oggi possono contare, complessivamente, su circa 14.000 tesserati complessivi. Si tratta però di aree su cui la Federazione non ha mai davvero investito, e in questo senso, di nuovo, sono i numeri a parlare, in maniera incontrovertibile: dal 2010 ad oggi sono quattro, in totale, i giocatori del Sud Italia ad essere stati convocati in Nazionale maggiore, considerando tutte le partite disponibili, dunque non soltanto Mondiali e Sei Nazioni, ma anche eventi in cui di solito vengono testati giocatori meno esperti, come i tour estivi e autunnali: due siciliani, Andrea Lo Cicero e il già citato Giovanni Licata, e due campani, Carlo Canna e Angelo Esposito. Non è necessario essere degli esperti di rugby per capire che, se in un arco decennale, pescando da un bacino annuale di circa 14.000 giocatori, soltanto in quattro sono riusciti a raggiungere la Nazionale maggiore, il problema non può che essere di tipo tecnico e strutturale.
Al Sud mancano gli allenatori esperti, ma servono soprattutto strutture di allenamento e osservatori che vadano sui campi a valutare le potenzialità dei giovani rugbisti. Analizzando la composizione degli staff delle Nazionali italiane, dalla maggiore all’Under 17, includendo rugby femminile e a 7 e considerando tutte le figure, dunque anche preparatori atletici e video analyst, si nota che, su oltre 70 elementi, soltanto due provengono dall’Italia meridionale. Si tratta di Tito Cicciò, assistente allenatore della Nazionale femminile, e di Pierosario Giuliano, preparatore atletico della Nazionale Under 18, peraltro entrambi trasferitisi a Milano da giovanissimi. Riflettendo su questi dati, sono due le possibili ipotesi: o il Sud non esprime tecnici all’altezza, e allora la Federazione dovrebbe impegnarsi a formarne, visto che i tesserati continuano a esserci; oppure gli allenatori capaci ci sono, ma alla Federazione non interessa, o non ne è al corrente.
A margine di questo ritratto, non sorprende la suddivisione regionale dei 35 atleti under 20 selezionati per far parte dell’Accademia Nazionale Ivan Francescato nella stagione 2019/20: 16 dal Veneto, 6 dalla Toscana, 4 dal Lazio, 3 dall’Emilia-Romagna, 2 dalla Lombardia, 1 a testa da Abruzzo, Friuli-Venezia Giulia, Marche e Sardegna. Una distanza che fotografa perfettamente le lacune gestionali di un movimento che è passato dai 25mila tesserati del 2000 agli oltre 110mila di oggi (80.000 praticanti, cui si aggiungono arbitri, allenatori e dirigenti), ma che non è riuscito a lavorare in profondità sul progetto tecnico e sportivo di crescita complessiva, ampliando anzi il gap fra regioni: Piemonte e Liguria sono due esempi lampanti di luoghi con una buona tradizione ovale, oggi però completamente esclusi dalla mappa del rugby italiano.
È anche per questo motivo che l’Italia che si presenta al Sei Nazioni 2020 (prima partita: sabato 1 febbraio a Cardiff, contro il rinnovato Galles di Wayne Pivac) è l’ennesimo frutto di una programmazione che a oggi si è dimostrata completamente sbagliata. In panchina ci sarà il traghettatore Franco Smith, sudafricano per anni allenatore di Treviso, nominato in fretta e furia dopo la squalifica del ct in pectore, il gallese Rob Howley, per scommesse. In campo un capitano nuovo di zecca, il tallonatore Luca Bigi, che avrà sulle spalle la pesante eredità di Sergio Parisse. Proprio a Parisse dovrebbe essere concessa una passerella finale in chiusura di torneo, probabilmente all’ultimo turno, in casa contro l’Inghilterra. Un tributo dovuto per uno dei giocatori più importanti nella storia del rugby Azzurro, cui allo scorso Mondiale, dopo l’annullamento della partita contro gli All Blacks per l’emergenza meteorologica, venne negato l’addio perfetto.