Meglio a una partita che a un vernissage: David Shrigley, tra arte e calcio

Intervista all'artista inglese, tifoso del Nottingham Forest.

È finito su tutte le prime pagine dei tabloid inglesi, Daily Mail in testa, quattro anni fa, per aver piazzato un pollicione nero alto sette metri nel cuore di Trafalgar Square, a pochi metri dalla statua dell’ammiraglio Nelson. A scandalizzare il pubblico le ovvie allusioni su quel “coso” decisamente troppo allungato, che qualcuno ha scambiato per un dito medio e altri per un chiaro simbolo fallico. L’autore è David Shrigley, uno degli artisti inglesi più apprezzati dell’ultima decade. Talmente apprezzato da fargli guadagnare una candidatura all’edizione 2013 del Turner Prize, una sorta di premio Oscar riservato a pittori, scultori e videoperformer.

Classe 1968, cresciuto a Leicester, ha vissuto diversi anni in Scozia per poi tornare in Inghilterra, a Brighton dove vive tutt’ora col cane Inka e la moglie Kim, proprio a dieci minuti dalla spiaggia. David è un tifoso sfegatato del Nottingham Forest, team dal palmarès glorioso (ha due Coppe dei Campioni in bacheca) ma che dal 2008 non riesce a tornare in Premier League. Molti dei lavori di David, un mix di illustrazioni, fumetti, dipinti e sculture, orbitano proprio attorno alla passione per il calcio. Nelle sue tavole appaiono calciatori ritratti come Beavis&Butthead, attaccanti e difensori che si pigliano a pugni, gambe pelose in primissimo piano con i calzettoni tirati giù fino alle caviglie. L’immaginario di Shrigley è sporco, pungente, a tratti estremo. Ecco perché l’atteggiamento dello spettatore davanti a un suo disegno è quasi sempre lo stesso. Segue sempre lo stesso iter: all’inizio si ride. Poi, dopo uno sguardo più attento, si scopre che non c’è poi così tanto da ridere, perché i temi di cui si parla sono dannatamente seri: dalla politica all’economia, dalla violenza al lavoro, fino ad arrivare recentemente alla quarantena e al Coronavirus.

Appassionato di musica (ha collaborato con gruppi e musicisti come i Blur, Franz Ferdinand, David Byrne e Hot Chip), nel 2015 ha creato Kingsley, mascotte del Partick Thistle, più comunemente chiamato Thistle, club scozzese di seconda divisione. Il personaggio, ribattezzato “terror mascot” per il suo aspetto decisamente inquietante, è un misto fra Lisa Simpson e un Pokemon. «È così brutto perché rappresenta tutta la fatica e la pena che comporta l’essere un tifoso», ha spiegato David. Kingsley era il frutto di un accordo fra l’artista e Mike Wilkins, manager del Kingsford Capital Management, l’hedge fund californiano che sponsorizza Thistle.

Proprio quest’anno Shrigley è stato scelto da Ruinart per realizzare Unconventional Bubbles, una serie di opere in cui viene raccontata l’arte della maison francese di champagne. I lavori, che  parlano di bollicine, uva e e crayeres (le profonde caverne scavate nel gesso in cui viene imbottigliato lo champagne fin dal 1729),  verranno presentati – emergenza sanitaria permettendo – negli spazi Ruinart presenti all’interno di fiere d’arte contemporanea come Frieze New York (6-10 maggio), Frieze London (8-11 ottobre) e Fiac Parigi (22-25 ottobre). Abbiamo incontrato Shrigley proprio in occasione del progetto firmato con la maison francese.

Ⓤ: Mr. Shrigley, perché questa passione per il pallone?

Amo questo sport da quando ero bambino. Da ragazzo ero un po’ in difficoltà con gli altri. Sentivo di dover quasi nascondere quest’amore. Mi piaceva l’arte, la musica e la letteratura e il calcio era considerato un po’ come un gioco da idioti. Oggi me ne frego. Cerco di vedere le partite ovunque vada: Cina, Australia, Messico, Giappone.

Ⓤ: È vero che tifa Forest?

Si, sono cresciuto a Leicester, ma uno dei miei amici era un fan del Nottingham Forest così ho deciso di esserlo anche io. Poi quel mio amico cambiò idea e iniziò a tifare Aston Villa. Ma per me era troppo tardi, e ho continuato a supportare il Nottingham. Credo fosse il 1977.

Ⓤ: Andava spesso allo stadio?

Da ragazzino non potevo andare a vedere le partite del Nottingham, così approfittavo di quando la mia squadra veniva a giocare a Leicester. Ricordo che un anno andai allo stadio e Gary Lineker realizzò una rete proprio davanti a me. Mi esultò quasi in faccia. Non ho mai odiato Lineker come in quel momento.

Ⓤ: Lavora da sempre con i tabù sociali. Ce n’è uno che ancora non ha rappresentato?

Penso che i tabù esistano solo nella nostra testa. Mi piacerebbe pensare di essere socialmente responsabile come artista. Col mio lavoro non vorrei offendere né mancare di rispetto alle persone. Ma a volte è difficile perché oggi gli strumenti che spesso utilizziamo, vedi ad esempio i social media, raggiungono chiunque e a ogni latitudine del mondo. Difficile non far arrabbiare nessuno, ma cerco comunque di non preoccuparmene più di tanto.

Ⓤ: Come è la sua vita di tifoso a Brighton, città dove oggi vive?

Mia moglie ha una casa a Exeter, e quando siamo lì vado a vedere i match dell’Exeter City. Ma quando sono a casa, mi sono appassionato al Whitehawk, che milita nella National League South, più o meno la sesta categoria. Prima e dopo la partita mi piace andare in un pub vicino allo stadio chiamato The Hand in Hand. I tifosi sono antifascisti, antiomofobi, antirazzisti. Non si sentono parolacce, niente proteste eccessive contro l’arbitro. Potrebbe quasi sembrare un po’ noioso ma è davvero una bella atmosfera. Ci sono un sacco di persone simpatiche laggiù.

Ⓤ: Sembra davvero piacevole…

Si, lo è. A volte vedi in campo giocatori professionisti ultratrentenni che militano nelle squadre avversarie. Un paio d’anni fa ho riconosciuto un vecchio attaccante del Charlton. È gente che magari ha bisogno di ristrutturare il bagno e gioca solo per alcune settimane per guadagnare qualche soldo in più.

Ⓤ: Ha definito il calcio il grande amore della sua vita. Quali sono gli altri?

L’arte e la musica, ovviamente. Leggere libri. Il mio cane. Nuotare nel mare. Fare yoga. L’enogastronomia. Le stazioni ferroviarie in disuso, ma ancor di più gli stadi di calcio abbandonati.

Ⓤ: Considera il calcio come una forma d’arte?

No, non proprio. È un’attività per il tempo libero. È il mio hobby.

Ⓤ: Spesso l’hanno accusata di amare più il pallone che l’arte. È davvero così?

No, non è vero. È solo che preferirei andare a una partita di calcio piuttosto che a un opening d’arte contemporanea. Senza pensarci su un solo istante.