Come si giocava a calcio negli anni Novanta?

Forse in maniera più veloce, di certo meno organizzata.

Una delle campagne pubblicitarie più apprezzate e provocatorie degli anni Novanta ritraeva Ronaldo Luís Nazário de Lima con la maglia nerazzurra dell’Inter, nella stessa posa del Cristo Redentor, sulla vetta del Corcovado, a Rio de Janeiro. Il claim scelto dagli uomini-marketing di Pirelli era evocativo, ma soprattutto era perfettamente centrato, restituiva il senso del calcio di quegli anni e l’impatto del loro testimonial su quel contesto: “La potenza è nulla senza controllo”. Ronaldo, infatti, risultò essere un calciatore rivoluzionario per la sua epoca grazie alla capacità di unire un’impressionante velocità – di corsa, di pensiero, di esecuzione – al controllo, alla pulizia del gesto tecnico con il pallone sempre attaccato al piede.

Ovviamente non c’è stato solo Ronaldo negli anni Novanta, ma lo studio del suo gioco può essere un punto di partenza per raccontare un’era calcistica rimasta impressa nella memoria collettiva. Al di là di ogni idealizzazione e di ogni confronto – che sarebbero comunque operazioni sterili, perché prive di comparazioni reali, verificabili –, queste settimane senza sport negli stadi e in televisione ci hanno permesso di rivedere tante partite di quegli anni, e hanno stuzzicato la nostra curiosità analitica: come si giocava a calcio negli anni Novanta? Quali erano le strategie tattiche più utilizzate?

Torniamo a Ronaldo, all’idea di potenza, velocità e controllo. Come detto, la dote cha reso unico l’attaccante brasiliano è stata la sua capacità di effettuare delle giocate sopraffine ed efficaci a velocità supersonica. Era esattamente ciò che serviva per determinare il risultato in partite che si giocavano come se fossero delle sfiancanti sfide di tennis, in cui ognuna delle due squadre, a turno, aveva la possibilità di affondare il suo colpo, ovviamente in base alle caratteristiche dei propri giocatori, alla loro qualità assoluta, alle idee di ogni allenatore. Se oggi l’obiettivo di tutte le grandi ideologie tattiche è controllare il flusso e il ritmo del gioco attraverso strumenti diversi – il possesso palla è quello più utilizzato, ma ci sono anche la compressione dello spazio con il pressing, oppure la difesa posizionale statica –, negli anni Novanta questo concetto non era così evidente. A rivederle oggi, infatti, pure le squadre più forti sembrano praticare un gioco meno organizzato e complesso, perché molto più rapido nell’esecuzione.

Nel calcio contemporaneo ogni manovra offensiva viene costruita in maniera ragionata, fin dal primissimo passaggio è chiaro come una squadra ricerchi di portare avanti il pallone seguendo un piano prestabilito, o comunque non casuale, pure al costo di apparire lenta e monotona nei propri meccanismi; venticinque anni fa, invece, il campo veniva risalito in maniera decisamente più immediata, la ricerca delle verticalizzazioni sulle punte o sugli esterni era compulsiva, i giocatori giocavano come se la temperatura del pallone aumentasse con il passare dei secondi, come se la sfera iniziasse a scottare qualora fosse rimasta per un tempo eccessivo tra i piedi di un solo elemento, o ancora peggio nella metà campo difensiva.

In questi 40 secondi tratti da Inter-Milan della stagione 1999/2000, non ci sono manovre “ragionate”, almeno per un osservatore del calcio contemporaneo: Di Biagio serve Vieri sull’esterno, ma il cross dell’attaccante nerazzurro viene ribattuto; il Milan sembra tenere il possesso in maniera più razionale, ma poi Ambrosini si isola sulla fascia e affronta un avversario in un duello uno contro uno; dopo averla persa, Ambrosini recupera la palla e la cede a Bierhoff, che cerca subito Weah in avanti; Fresi intercetta e un attimo dopo Di Biagio lancia ancora lungo, in verticale e fuori misura, alla ricerca di Moriero.

In un contesto del genere, in cui le distanze tra i reparti erano più ampie e in cui le squadre tendevano inevitabilmente a essere più lunghe sul campo, le doti degli attaccanti, soprattutto di quelli più tecnici ed esuberanti dal punto di vista atletico – oltre a Ronaldo, si pensi anche a van Basten, Vialli, Batistuta –, venivano esaltate. Uno dei gol più iconici degli anni Novanta, quello realizzato da Bergkamp contro l’Argentina nei quarti di finale della Coppa del Mondo 1998, è stato realizzato grazie a un lancio lungo di Frank de Boer addomesticato e scaraventato in porta con classe sublime dall’attaccante ex Arsenal e Inter; un’altra rete meno conosciuta ma ugualmente significativa è stata segnata in maniera praticamente identica da Davor Suker in un match della Croazia contro l’Irlanda. La qualità individuale, allora come oggi, faceva la differenza.

Solo che si esprimeva con altri tempi e in altri spazi: il posizionamento dei giocatori in fase offensiva era molto diverso, la superiorità numerica veniva ricercata e/o determinata con manovre rapide, quindi era necessario tenere molti uomini sopra la linea della palla, soprattutto quando questa era in possesso dei giocatori che assolvevano compiti di regia lunga – i difensori con maggior qualità di calcio o il centrale di centrocampo. In un gioco che si sviluppava in questo modo, Ronaldo era considerato un extraterrestre, e in effetti lo era; altri attaccanti molto intuitivi come Inzaghi o Bierhoff risultavano funzionali, anche se non erano raffinati nei fondamentali; sistemi offensivi come quello di Zeman – sofisticati, ricercati nelle combinazioni di passaggi tra le punte – apparivano visionari, rivoluzionari rispetto a tutti gli altri.

Gabriel Batistuta ha giocato nella Fiorentina dal 1991 al 2000; il suo score totale è di 207 reti in 332 partite ufficiali (Allsport UK /Allsport)

In virtù di tutte questo, e rivedendo le partite, è facile capire perché negli anni Novanta era praticamente inevitabile schierare almeno due punte di ruolo: gli uomini del reparto offensivo non accorciavano verso il centrocampo in fase di possesso, anzi avevano il compito di allungare la difesa avversaria e la propria squadra, spartendosi l’area per l’attacco della profondità sull’asse orizzontale; le loro corse per ricevere il pallone, controllarlo e poi avanzare verso la porta, oppure giocare di sponda per i compagni, erano molto lunghe, in campo aperto, spesso esploravano anche le fasce laterali; l’idea che tutti questi movimenti, lungo un’intera partita, dovessero essere compiuti da un solo elemento non era attuabile, per una questione di pura autonomia fisica. Lo stesso Ronaldo, per quanto potesse essere fortissimo nei duelli individuali che si determinavano con i difensori avversari, ha giocato sempre accanto a una seconda punta, per tutta la prima parte della carriera: Romário e poi Bebeto nel Brasile, Zamorano e poi Vieri all’Inter, Raúl al Real Madrid.

In questo video ci sono i minuti precedenti e il celebre gol di Del Piero contro la Fiorentina, nella stagione 1994/95: la rete del giocatore della Juventus arriva al volo su un lancio lungo dalla fascia sinistra, ma nelle azioni precedenti si vede chiaramente come gli attaccanti di entrambe le squadre – Ravanelli, Baiano, lo stesso Del Piero – si allarghino sulle fasce per ricevere palloni serviti in verticale dai loro compagni.

Dal punto di vista difensivo, il calcio degli anni Novanta risente del lascito della rivoluzione di Sacchi, ultimata al termine del decennio precedente: erano evidenti i primi tentativi di organizzare una pressione accentuata sui portatori di palla, soprattutto da parte delle squadre più forti, per bloccare le manovre di possesso che si prolungavano oltre pochi secondi. Probabilmente è anche per questo che la fase offensiva era concepita in maniera così veloce, proprio per sfruttare le possibili falle di un sistema che si stava affermando e diffondendo a macchia d’olio, che cercava una prima struttura complessa oltre la marcatura a uomo, che puntava a limitare il gioco degli avversari senza contenerli, piuttosto alzando l’intensità e riducendo lo spazio di manovra. Del resto, la storia delle tattiche calcistiche non è molto differente da quella umana, è un gioco di scoperte, di selezione naturale, di azione e reazione, di adattamento a nuove regole e nuove intuizioni. La difesa ipertrofica di oggi, che si basa sul pressing e/o sulle marcature uno a uno a tutto campo, non è che l’evoluzione, anzi il perfezionamento degli schemi sperimentati in passato.

Nei minuti iniziali della finale di Champions League della stagione 1993/94, il Milan mostra un pressing abbastanza organizzato e continuo sui giocatori avversari. Il Barcellona tende a tenere la palla più delle squadre che abbiamo visto nei video precedenti, ma anche in questa sequenza non disdegna il lancio lungo per risalire il campo e/o cambiare il fronte di gioco, così da mandare a vuoto il meccanismo difensivo degli avversari. Quando il Milan recupera il pallone, invece, tenta subito di verticalizzare il gioco verso gli attaccanti e/o i centrocampisti laterali.

Dopo aver rivisto diverse partite negli anni Novanta, la sensazione è che il gioco sia nettamente progredito in quanto a complessità e organizzazione offensiva. Del resto è una parabola comune a tutte le cose: l’eredità del passato determina l’evoluzione, nel caso delle tattiche calcistiche questo avanzamento è coinciso e coincide con una volontà sempre maggiore di dare ordine al caos, attraverso meccanismi fissi o comunque studiati in tutte le fasi di gioco. Il paradosso è che questa richiesta di meccanizzazione del gioco ha portato a un cambiamento di approccio individuale da parte dei calciatori: prima le attribuzioni in campo erano definite, specializzate, anche nei profili più sfumati; esistevano i terzini difensivi e quelli offensivi, i difensori centrali bravi nell’impostazione e quelli che si dedicavano solamente o soprattutto alla marcatura degli avversari, i laterali d’attacco, il centrocampista che dettava i tempi, la punta classica e quella più mobile; tutti questi elementi avevano dei compiti precisi da assolvere e degli spazi da coprire, occupare, attaccare in base alle circostanze.

Oggi, invece, tutti i giocatori partecipano a tutte le fasi di gioco. E il discorso va oltre l’aiuto ai compagni in fase di non possesso, oltre la capacità di controllare e smistare il pallone: un calciatore contemporaneo è parte di un sistema che ha un obiettivo in ogni azione, un obiettivo da raggiungere attraverso un lavoro collettivo, e possiede – almeno in teoria – gli strumenti per cercare di arrivare a centrare questo obiettivo senza dipendere dall’errore dell’avversario, o da un evento incidentale. Il calcio degli anni Novanta era e resta ancora oggi un’esperienza elettrizzante, il gioco aveva un ritmo probabilmente più sostenuto, più immediato, perché i capovolgimenti di fronte erano più frequenti rispetto a oggi; a confronto, il calcio moderno può sembrare talvolta più ripetitivo, ma proprio questo aspetto è una conseguenza del progresso, del fatto che i migliori calciatori, ispirati dai migliori allenatori, vogliono prendere il controllo delle partite e dominarle per 90 minuti, rischiando poco in difesa e creando tanto in fase offensiva. È uno sport più strategico, meno legato all’estemporaneità. Oggi i talenti più cristallini fanno ancora la differenza, ma vengono attuati tanti nuovi metodi e trucchi perché il talento possa essere contenuto, oppure moltiplicato, attraverso le connessioni determinate dalla tattica.