Il possesso palla è l’anima del calcio moderno

Tenere il pallone è uno strumento di attacco e di difesa. Ma serve soprattutto a controllare il gioco.

Nelle ultime righe del saggio Roger Federer come esperienza religiosa, David Foster Wallace scrive: «Il fuoriclasse svizzero dimostra che la velocità e la potenza sono semplicemente lo scheletro, non la carne, del tennis odierno». Se volessimo costruire un discorso simile sul calcio, l’unico parametro tattico che potrebbe reggere una frase così impegnativa, che può essere considerato lo scheletro del gioco moderno – perché preponderante come lo sono la resistenza, la regolarità e la forza dei colpi nel tennis contemporaneo – è il possesso palla. È un’evidenza emersa soprattutto negli ultimi dieci anni, grazie a rilevazioni statistiche sempre più avanzate, sempre più accurate: esiste una proporzionalità diretta tra la percentuale di possesso palla, il dato sulla precisione dei passaggi e la probabilità di vincere una partita, perciò l’approccio più conveniente per un allenatore moderno, soprattutto sulla distanza medio-lunga di una stagione, deve essere basato sulla volontà di controllare il pallone.

Un report dell’osservatorio calcistico CIES ha evidenziato come la percentuale media di possesso palla delle squadre che hanno vinto un campionato europeo (di prima e/o seconda divisione), nelle stagioni 2016/17 e 2017/18, sia stata superiore al 57%; in un articolo pubblicato su The Athletic sono raccolti i dati Opta che mostrano come questa tendenza tattica, concepita sui campi di allenamento delle squadre più forti, più influenti e più vincenti degli ultimi anni, si sia estesa anche ad altri livelli: nell’ultimo decennio, la cifra media di passaggi per partita nei cinque maggiori campionati europei (Premier, Liga, Serie A, Bundesliga e Ligue 1) è cresciuta da una quota minima di 752 (Ligue 1 2009/10) fino a 863 (Liga 2018/19); la quota massima, invece, è passata da 784 (Serie A 2009/10) a 918 (Premier League 2018/19).

In virtù di questi numeri, possiamo definire il possesso palla come la grande verità tattica del gioco contemporaneo. Anzi, non è sbagliato spingersi ancora più in là: il possesso palla è l’unica verità possibile del calcio moderno, d’altronde è la sola che è stata intercettata e verificata attraverso la matematica, perciò è inconfutabile, ma soprattutto è universale. Quest’ultimo è l’aspetto più importante: il fatto che la larghissima maggioranza dei tecnici contemporanei si sia appropriata di questo strumento, e lo imponga come principio essenziale del proprio modello di gioco, dimostra come la nozione di possesso palla sia tutto tranne che univoca e monolitica. La realtà ci dice invece che si tratta di un concetto estremamente fluido, che può essere declinato e sfruttato in tantissimi modi, a seconda delle idee, della cultura di riferimento di ogni allenatore – che poi, a sua volta, deve tener conto anche delle caratteristiche dei giocatori che ha a disposizione, e dei giocatori che il suo club può acquistare sul mercato.

In questo senso, l’esempio di adattamento progressivo più evidente ed eclatante – per quantità e qualità dei risultati conseguiti – riguarda il Liverpool di Jurgen Klopp: il manager tedesco ha costruito una squadra che ama attaccare in transizione, perché i suoi calciatori più offensivi e più forti preferiscono giocare in spazi larghi, vogliono arrivare in porta con azioni immediate, quindi non troppo sofisticate. Da qui si origina una visione parziale per cui il Liverpool lascia controllare il pallone agli avversari, per poi attuare il suo pressing ultra-offensivo, recuperare la sfera velocemente, in una zona di campo molto avanzata, e affrontare la difesa avversaria in campo aperto, o quasi.

La realtà è un po’ diversa, è più sfumata: effettivamente i Reds esprimono il meglio del proprio potenziale quando possono giocare rapidamente e in verticale, però hanno portato il loro rendimento a livelli d’eccellenza solo quando sono riusciti ad aumentare la durata e la qualità del possesso palla – anche grazie al reclutamento di elementi tecnicamente più raffinati, capaci di distribuire il pallone con maggiore precisione, per esempio il portiere Alisson, oppure van Dijk e Wijnaldum. Non a caso, nella prima stagione di Klopp ad Anfield Road, la percentuale media di possesso palla del Liverpool era del 55%, e i Reds terminarono la Premier all’ottavo posto; oggi, invece, il dato che riguarda i match di campionato è superiore al 58%, mentre quello relativo ai gironi della Champions League 2019/20 è arrivato a sfiorare il 63%. Una quota più alta rispetto a quella del Manchester City di Pep Guardiola nella stessa fase del torneo continentale.

In Champions League, il Liverpool ha una percentuale di possesso palla del 63%, una quota più alta rispetto a quella del Manchester City (Michael Regan/Getty Images)

Proprio questo confronto virtuale e ideologico tra Manchester City e Liverpool – due squadre fortissime con un modello di gioco estremo, ed estremamente riconoscibile – dimostra come la definizione contemporanea del possesso palla sia decisamente vasta, e trasversale, e multiforme: la squadra di Pep Guardiola cerca di tenere il pallone in ogni momento della partita, lo muove in maniera codificata, ad alte frequenze e con ritmo ossessivo, per creare gli spazi attraverso cui disarticolare il sistema difensivo degli avversari; il Liverpool, invece, usa il possesso come dispositivo di autocontrollo, per abbassare l’intensità del proprio gioco in alcuni frangenti della partita, per amministrare le energie; viene quasi da dire che gli uomini di Klopp iniziano a far girare la palla quando devono rallentare e non vogliono rischiare nulla, mentre aspettano che si aprano le larghe praterie amate da Salah, Mané, Firmino, oppure che Alexander-Arnold e Robertson, i terzini-registi della squadra, accendano la loro creatività sulle fasce laterali.

Secondo Jonathan Wilson, giornalista del Guardian e autore di alcuni libri di culto sulla storia tattica del calcio, uno dei primi allenatori europei che ha adoperato il possesso palla come meccanismo di sospensione, di pausa e di attesa, o anche come strumento puramente difensivo, professa da sempre un approccio al gioco molto diverso da quello di Klopp: «Quando è arrivato al Chelsea nel 2004, José Mourinho ha introdotto in Inghilterra l’idea che si potesse riposare gestendo il pallone, così da logorare psicologicamente gli avversari». Nello stesso articolo da cui è tratta questa citazione, lo stile di gioco di Mourinho viene definito come «il grande avversario filosofico del calcio di Pep Guardiola, basato sull’esasperazione del possesso palla».

Nella fase a gironi della Champions League 2019/20, il Manchester City ha effettuato 640 passaggi di media a partita: è il record del torneo (Shaun Botterill/Getty Images)

Tutte queste ricostruzioni, tutte queste storie diverse eppure profondamente intrecciate tra loro, contribuiscono a smontare la visione per cui un allenatore che costruisce e prepara la sua squadra perché gestisca a lungo il pallone compia una scelta estetica, non funzionale. È l’esatto contrario: tenere la palla è diventata una strategia puramente utilitaristica, ed è un discorso che vale per tutti gli stili di gioco.

Da questo punto di vista, la dimostrazione più calzante arriva dall’Italia, dall’analisi dei dati della Juventus: nell’estate 2019, la squadra bianconera ha cambiato molti giocatori sul mercato e ha deciso di sostituire un allenatore con un approccio considerato prudente in tutte le fasi di gioco, Massimiliano Allegri, con Maurizio Sarri, un tecnico teoricamente più ambizioso, che ama dominare il gioco attraverso la circolazione della palla. Nonostante tutti questi cambiamenti, la percentuale media di possesso della squadra bianconera è cresciuta in maniera impercettibile (dal 56% al 57%), anzi le rilevazioni di Whoscored mostrano come il numero di passaggi per match di Serie A sia addirittura calato (da 580 a 569) rispetto al ciclo precedente.

La Juventus di Maurizio Sarri tiene la media di 569 passaggi in ogni partita di Serie A (Marco Bertorello/AFP via Getty Images)

Il caso della Juventus è un’ulteriore dimostrazione di come il calcio, soprattutto ai massimi livelli, sia diventato uno sport di dominio: oggi le migliori squadre puntano a comandare le partite in tutti i loro aspetti, a ridurre l’impatto degli episodi, e del gioco dell’avversario, sull’andamento delle gare. Tutti gli allenatori e i giocatori hanno dovuto adattarsi, rispondere alle nuove richieste: i portieri e i difensori dell’era contemporanea si allenano tantissimo sui passaggi, anzi vengono selezionati e giudicati anche in base alla loro capacità di smistare il pallone; la costruzione dal basso è diventata una strategia universale, perché consente di autodeterminare l’andamento della manovra fin dalla propria area di rigore, e viene attuata perché genera evidenti vantaggi a lungo termine, per chi vuole provare ad attaccare subito l’avversario, ma anche per chi vuole semplicemente limitarlo.

L’evoluzione del calcio ha preso una strada chiara, quella che passa dalla volontà di ordinare il più possibile il caos e il caso. Il possesso palla è indubbiamente lo strumento migliore per esercitare questa presunzione di onniscienza, di controllo assoluto, quantomeno per provare a farlo; è il punto di partenza, lo scheletro del gioco, su cui ogni allenatore può avvolgere la carne che preferisce.

Dal numero 32 di Undici