La saga infinita del tifare giallorosso

Il romanismo è forse il fenomeno tifoso più raccontato d'Italia. La gioia fa parecchio rumore di Sandro Bonvissuto è la sua declinazione in forma di romanzo.

Tartan. Un dio che a Roma ha preteso molti tributi ma nemmeno una statua a ricordarlo. Piuttosto uno stadio. Se c’è un padre padrone delle squadre capitoline è la rossa superficie sintetica a base di poliuretano, la pista d’atletica che circonda il prato dell’Olimpico, che con il calcio non c’entra nulla. Su quel tappeto ovale si consuma da sempre la distanza tra le ambizioni del calcio romano e le velleità, che amano celebrare la vita dopo un gol correndoci sopra, chiamando a raccolta tutti. Franti Di Canio ci ha fatto il teppista, Daniele Conti ci ha rinnovato la dinastia, qualcun altro è ancora lì che esulta felice ma la partita è finita diversamente forse perché quell’energia lì non è mai più rientrata in campo, mica siamo ad Anfield. Tartan che San Siro non ha mai avuto, e infatti le bacheche ringraziano. Per lo stesso motivo la Juventus non ha mai amato il Delle Alpi, «troppo grande, troppo freddo, troppo vuoto», raccontò Crosetti il giorno della sua demolizione.

Chi ha attraversato la palude del tartan romano in segno di sfida è stato Paulo Roberto Falcão, sempre con lo stesso gesto: la corsa oltre i cartelloni pubblicitari, il salto imperioso, fiero, col pugno chiuso alzato, mentre a 90° Minuto ancora ne storpiavano il cognome come nella canzone tributo di Jorge Ben. La prima volta a febbraio ‘81, l’ultima a marzo ‘84. Nel 2020 Falcão esulta ancora e sbanca la Torino di carta sulla copertina del nuovo romanzo di Sandro Bonvissuto La gioia fa parecchio rumore (Einaudi). L’illustrazione di Andrea Serio che riproduce una foto famosa è pastosa, dolce, prova a togliere i canini alla nostalgia in cui affoga il libro.

Per coincidenza il romanzo di Bonvissuto è uscito nell’anno zero della Roma, la sua squadra del cuore. Fuori dai giochi di campo e scrivania Totti e De Rossi, capitani romani e romanisti, esaurito anche il tempo degli addii, pure Florenzi è finito in esilio. Stagione senza Champions da giocare dopo sei anni su dieci di qualificazione, e soprattutto dopo l’exploit che ha portato alla semifinale contro il Liverpool, il gol di Manolas è una cartolina senza più il suo protagonista, la proprietà sta trattando il futuro, il nuovo stadio una faccenda interrotta. In questo limbo meglio tornare a riordinare i fondamentali, l’abc del tifo, e ripensare le iniziazioni al culto.

In soccorso è arrivato questo romanzo di formazione giallorossa incentrato sull’apprendistato amoroso, ossessivo a tratti mistico di un bambino dai 9 ai 14 anni, una ortodossia ricostruita nei dettagli e spalancata al lettore. La scelta narrativa è caduta sul quinquennio sportivo 1979-1984, il mito che va da una scampata retrocessione alla finale di Coppa dei Campioni, passando per l’impresa scudetto. In realtà sulla griglia d’infanzia l’uomo adulto Bonvissuto ha poggiato un manuale sentimentale della solitudine del maschio, però all’opposto della sortita sessuale e spregiudicata di Francesco Piccolo. Il tifo come «un evento sentimentale consumato in collettiva», «un amore che deve fare a meno di un ritorno», il calcio come «la versione in grana grossa e grossolana di una tragedia greca vista a teatro», speculazioni mature (puntellate nelle interviste) applicate su un’età che di norma si sazia con simboli univoci come maglie, bandiere, sciarpe.

Tartan però è stato anche il dio che si è messo d’intralcio davanti allo sguardo del tifoso, anticamera fissa non gradita fin da bambini quando stregati dall’ingresso nell’Olimpico bisognava poi riempire con molta immaginazione quello spazio inaspettato che allontanava i giocatori. Così come ne serviva durante la settimana tra liturgie casalinghe, sublimazioni, nerdismi ante litteram, per rivivere nella testa quell’unico appuntamento (coppe escluse). E non esisteva internet, né il mucchio selvaggio dell’etere romano. È qui che si pianta il romanzo di Bonvissuto, un manifesto di sapienza neorealista, fatto di verità, giuramenti, tautologie ed eroiche rigidità: «Ero più felice quando guardavo la Roma giocare che quando giocavo al prato con gli amici».

Intorno c’è la città stradarola delle vecchie periferie, quello che è stato il popolo dell’Olimpico fino alla diaspora provocata dalle pay tv, che colpì pure tutta la provincia, pubblico mai più restituito, blindato dalla banda larga. I corridoi dello stadio somigliano a cortili condominiali che sembrano bar, essere tifosi va sotto la graticola vanziniana, non c’è bisogno di essere ultrà per sembrare la suburra perditempo. Anche se non è il foyer dell’Opera lo stadio resta il lunapark più bello dove portare un figlio la domenica. Il primo seggiolino del libro è però un posto sul divano davanti la tv, la famiglia come un clan, figure burbere tra silenzi e massime, in eredità calcistica ci sono stagioni povere, «un immaginario triste» simboleggiato dalla colonna di destra della classifica, «quella peggiore, dei pochi punti, di chi non vinceva mai».

Poi nel manuale sentimentale arriva la realtà: diversa, inadeguata, caotica, rapida, stupenda, cattiva. Il viaggio a Fiumicino per il mitico arrivo di Falcão ma c’è appunto la folla dei record, e Falcão è da qualche parte, vicinissimo ma nascosto, irraggiungibile. Nella prima partita il brasiliano è invece troppo lontano, colpa del solito tartan. La sua punizione contro l’Avellino a una giornata dallo scudetto è nascosta da un muro di ombrelli aperti, «il gol più importante della mia vita è in pratica un gol che non ho visto». Lo stadio prosciuga la voce e il cuore, le stagioni, anche quella che porta al big bang della vetta, si riempiono di silenzi forzati. La favola di una comune felice “de noantri” è rotta dal dramma di Paparelli, e il clan ammette amaro: «Niente sarà più come prima».

Il romanzo si ferma tremante al fischio di inizio di Roma-Liverpool: come una porta che si chiude su quello che sta per succedere per strada, un pudore neorealista. Oltre c’è il rigore non tirato proprio da Falcão, ferita ancora aperta, verrà poi la fine dell’epopea, la disfatta di Roma-Lecce, le tante partite libere dal controllo familiare e lontane dai riti di iniziazione. Ma Bonvissuto con un gesto letterario ha detto no a tutto questo: «Siamo tutti in ballo, siamo sul più bello in un acquarello che scolorirà», cantava Toquinho, fratello di leche di Paulo Roberto, «e il futuro è un’astronave che non ha tempo né pietà».