Conversazione con Domenico Romeo, designer di Off-White, sull’estetica delle gradinate.
Lo studio di Domenico Romeo è arredato in modo semplice. In una stanza, delimitata da pareti di vetro, un archivio di giubbotti Stone Island di diverse stagioni passate. Nella libreria, poi, le cose più interessanti: vecchi adesivi degli ultras della Reggina, alcuni anche del Bari, con cui i calabresi sono gemellati, Una serie di libri di grafica e di design, alcuni testi di filosofia e religione. Uno scaffale dedicato a statue votive di diverse fedi, monoteistiche e non. Accostamenti poco giudiziosi, in apparenza. Eppure cos’è il tifo se non un grande rituale collettivo che ogni settimana si ripete?
«Io sono una persona religiosa. Ho una mia idea della religione in cui riconosco una forma superiore», dice. «La cosa importante delle religioni è che sono costruite intorno all’idea di comunità». Domenico Romeo del sincretismo ha fatto la sua bussola: oggi è un graphic designer e lavora con diversi marchi di moda, da Off-White a C.P. Company, in passato per Hood By Air. Alla base di tutto, la passione per il calcio, nata a Reggio Calabria, da cui nasce e prende forma la creatività di Domenico. «Il nome del gruppo ultras che ho fondato era Noi Felici Pochi. È Shakespeare», dice. Per la precisione: Enrico V, battaglia di Agincourt, quando un esercito, quello degli inglesi, sembra senza dubbi destinato alla sconfitta. Il discorso di Enrico V vuole riscaldare gli animi dei soldati abbattuti. Così parla: «Noi felici, pochi. Noi manipolo di fratelli: poiché chi oggi verserà il suo sangue con me sarà mio fratello, e per quanto umile la sua condizione, sarà da questo giorno elevata». Paragoni con il calcio, certo. Con il campo, e con il fuori campo. «Io entro allo stadio già quando avevo 12 anni, avevo un fratello di 17 e lui è stato l’apripista, in un certo senso», racconta. Il discorso del re shakesperiano ha degli echi in quello che ricorda: «Tutto quello che ho vissuto in curva era un mondo fuori dal mondo: lì vivevamo una fratellanza vera, non c’erano differenze sociali. Non c’erano avvocati, non c’erano dottori, eravamo tutti uguali, sullo stesso livello».
Domenico trova il suo posto e il suo ruolo occupandosi della parte estetica del gruppo e della curva: «Ero quello che gestiva gli striscioni, le bandiere, le coreografie». La moda, in un certo senso, è da subito importante: «Mi sono avvicinato alle sottoculture inglesi già a 13 anni», racconta ridendo, «sono prima diventato skinhead, andavo a Londra apposta per comprare i dischi, mi appassiono alla musica nera: ska, northern soul, reggae, poi passo dai mod e arrivo alla cultura casual, che in certi contesti… ti facilitava la vita». Ma professionalmente non segue la strada che sembrava indicata dal calcio: si traferisce a Roma, si iscrive a giurisprudenza, frequenta i corsi per quattro anni, prima di una spaccatura che direzionerà la sua vita in un modo completamente diverso. Inconvenienti del mestiere, in un certo senso: la repressione che ha colpito il movimento e anche il suo gruppo. «Mi rendo conto che con uno stop forzato di tutti non avrei più sfogato la mia vena creativa facendo striscioni, bandiere e altre cose, non sarei più partito per le trasferte… Quindi lì decido di lasciare giurisprudenza e iscrivermi a grafica. È il giugno 2010».
In fondo all’open space c’è una specie di installazione: diversi teli di diversi materiali appesi a una cornice metallica, come un’impalcatura, in un certo senso, coperta di tessuto. «È il mio progetto artistico, che rientra come ispirazione sempre nella parte stadio», spiega lui. «Sono delle installazioni con dei tessuti che verranno poi arricchiti con customizzazioni, nastrature, cose varie. Per me è un po’ una chiusura del cerchio, perché parla di stadio, ma anche di moda: prendo i tessuti dai tessitori che lavorano con la moda, la stessa tipologia di tessuti delle giacche tecniche che indossavo allo stadio, e con questi tessuti faccio delle bandiere che installo su queste strutture di ferro che sto costruendo ad hoc. È qualcosa che racconta tutto il mio percorso: da dove sono partito, dove sono arrivato. È un tributo: calcio, moda, sempre con un approccio artistico».
Dallo stadio nasce tutto, allo stadio si torna sempre. «In curva ho appreso tutto. E quando dico che ho appreso intendo il bello e il brutto. Lì è tutto amplificato, all’ennesima potenza. Anche la criminalità, il disagio, la violenza senza motivo. Tutto portato all’estremo». Come in un testo sacro, un’epica, una saga: «Lì inizi a distinguere dov’è il bene e dov’è il male. Però c’è anche un’amicizia fortissima. Lì ho capito cosa volevo essere».