I fasti della squadra di Micheal Jordan sono lontani, ma nella Windy City la pallacanestro resta una ragione di vita.
Il cartellone è apparso a fine luglio 2017. In bella vista a ridosso dell’angolo tra Racine e Lake Street, una delle centinaia di incroci ortogonali della griglia urbana di Chicago. Sullo sfondo, l’inconfondibile sagoma dei grattacieli della città; in primo piano la scritta #FireGarPax, un chiaro attacco a Gar Forman e John Paxson, il duo che incarna i poteri dirigenziali dei Bulls. Quell’incrocio, anonimo a prima vista, è altamente strategico. Un punto di passaggio obbligato tra l’autostrada e lo United Center, ricordo di ingorghi e caos per chiunque si sia recato a vedere una partita dei Bulls.
Più della posizione geografica, però, quello che rende particolare la protesta è che quel cartellone non è un lenzuolo appeso clandestinamente a un cavalcavia. È uno spazio pubblicitario regolarmente affittato grazie ai 7000 dollari raccolti in soli tre giorni con una campagna di crowdfunding, con contributi da tifosi tutto il mondo. Un trionfo dell’associazionismo in versione millennial, capace di superare barriere finanziarie impegnative e di esprimere con forza la disistima per le ultime mosse della società. Ma anche questa fase di malcontento, per quanto intensa, impallidisce al cospetto del mastodontico contesto in cui si è sviluppata la storia dei Bulls. Imprescindibile, per capire appieno la portata sportiva e culturale di questa squadra.
Se si parla di Chicago e basket, la memoria storica non piò essere lasciata da parte, a partire dagli anni Novanta. Quelli che hanno cambiato per sempre la storia della franchigia, e pure della città. Tra il 1992 e il 1998, Michael Jordan, con l’aiuto di squadre fatte apposta per esaltarne le caratteristiche e assecondarne gli eccessi, vinse sei titoli in otto anni, elevando i Bulls allo status di icona globale. Nella sua scalata verso cime fino a quel momento inesplorate, Jordan sfondò la storia su più fronti. Non solo era il giocatore più forte mai visto sino a quel momento su un campo da basket — un privilegio che probabilmente ancora oggi può vantare. Era anche la persona che diede un’ identità tutta nuova alla città di Chicago, fino a lì percepita al di fuori degli States come terra di blues e di violenza, vento gelido e boss spietati. Lo fece anticipando i tempi, scalando la fama sulla spinta di una mostruosa macchina commerciale. Jordan era un idolo, un canone estetico, una voce morale. A cui le imprese sul campo riservavano un posto al di sopra del bene e del male. A volte, persino dell’umano. E così, mentre la silhouette di MJ conquistava cuori e mercati, Chicago era ormai indissolubilmente legata al logo del toro. Una disegno semplice, essenziale, facilmente identificabile a cavallo di paesi e culture. E che nulla potrà mai rimuovere dall’immaginario.
Cavalcando l’onda di un’eredità mitologica, nemmeno troppo lontana nel tempo, i Bulls non hanno cambiato nulla nella loro immagine. Stessi colori, stesso stile, stessi caratteri. Inutile sperimentare, quando la spinta della storia è ancora così forte. E così, ancora oggi, i turisti che transitano da Chicago vedono lo United Center come un museo di arte contemporanea. In cui dire di esserci stati vale, da solo, il prezzo del viaggio. Lo sanno bene gli operatori turistici che organizzano i tour per gli stranieri: tre giorni di tappe forzate in pullman a toccare i punti salienti della città, in cui lo United Center viene regolarmente infilato assieme ai panorami mozzafiato sulla cima grattacieli, alle raffiche di vento sferrate dal Lago Michigan, e al Green Mill — storico locale jazz ai tempi covo di Al Capone, e ancora oggi pietra miliare della scena musicale statunitense.
Non c’è da sorprendersi, dunque, se nel concepire l’esperienza da vendere agli spettatori, la franchigia ha conservato strategicamente vecchi simboli e rituali. Dal riscaldamento pre-partita al deflusso finale per evitare il traffico, venire alla United Center significa mettere i piedi dentro una gigantesca macchina del tempo, dove tutto è teso a rievocare il mito: le corna che dominano il cerchio di centrocampo, la presentazione dei padroni di casa sulle note di The Alan Parsons Project, gli stendardi appesi al soffitto, che ricordano titoli e maglie ritirate. E, soprattutto, il video che precede l’inno nazionale e la presentazione delle squadre, a circa quindici minuti dalla palla a due. Una carrellata di immagini storiche, con musica trionfante, ritmo rallentato e colori soffusi, che ripercorrono le tappe dell’epopea. Ovviamente più della metà sono dedicate a Jordan e ai suoi scudieri. Quelli che tenevano assieme quella difesa così impenetrabile: Scottie Pippen, Horace Grant, Dennis Rodman. E quelli si erano calati alla perfezione nel proprio ruolo di specialisti: John Paxson e Steve Kerr, per esempio, entrambi autori di canestri decisivi in partite che hanno assegnato un titolo. Quei due minuti scarsi sul tabellone luminoso, conclusi dalla frase “50 anni di tradizione, and counting“, sono catartici. Un concentrato di emozioni che, ancora prima che si inizi a giocare, permette agli spettatori di passaggio di per dare un senso alla propria presenza sulle tribune. Con buona pace del risultato finale.
Diversa la prospettiva di chi di basket si interessa veramente, con occhi contemporanei. Proprio come molti dei finanziatori del cartellone. Per loro la storia ingombrante non sono i fasti del secolo scorso, ma le catastrofi sportive recenti. Nella primavera del 2011, Derrick Rose veniva incoronato come il più giovane Mvp della storia della NBA. A 21 anni, sembrava pronto a riportare i Bulls dentro la storia: giovanissimo, esplosivo in campo, timido fuori. E, soprattutto, chicagoano fino al midollo: nato e cresciuto a Englewood, nel cuore della zona meridionale della città. Fin troppo facile vederlo come una nuova incarnazione messianica.
Ma le cose sarebbero puntualmente deragliate. Il suo infortunio ai legamenti nei playoff del 2012, che i Bulls affrontavano da testa di serie nella loro conference, ne ha di fatto stroncato la carriera, al netto dei ritorni in campo degli anni successivi. Con lui, si è frantumata la macchina da guerra che coach Tom Thobodeau, un mago della difesa con un’etica del lavoro al confine tra dettaglio e autodistruzione, stava allestendo per riportare i Bulls a giocarsi un titolo. E così, guardandosi indietro, quegli anni portano un sapore agrodolce, di illusioni cadute e obiettivi sfiorati. Come la finale di conference del 2011, quando i Bulls arrivarono a un passo dall’ottenere un vantaggio di 2-0 nella serie, prima di venire castigati dall’esperienza dei Miami Heat.
O la replica di due anni dopo, nel 2013, quando una squadra con il nostro Marco Belinelli in quintetto base lottò ben oltre le proprie possibilità tecniche, in partite ai limiti della violenza fisica che fecero gustare ai molti tifosi locali il fascino degli anni Novanta. Ma in entrambi casi lo strapotere di LeBron James, mai battuto da Chicago in una serie playoff, si sarebbe rivelato insormontabile. Da lì, è stata una spirale verso lo smantellamento. Licenziando Thibodeau e svendendo Jimmy Butler ai Minnesota Timberwolves — ultimo pezzo di quella squadra, e giocatore che Thibodeau stesso aveva trasformato da specialista difensivo in stella assoluta— la dirigenza ha ufficialmente dato il via alla ricostruzione. Che, come spesso accade nel sistema americano, assume toni apocalittici. Veterani svincolati, frotte di rincalzi firmati a prezzi modici, talento ridotto all’osso.
Eppure, il rapporto tra Chicago e il basket va molto al di là del destino dei Tori. L’NBA rappresenta il volto globale della pallacanestro, programmato per rastrellare appassionati in ogni angolo del globo. Dentro i confini degli USA, rimane però una componente avulsa da quotidiano, accessibile dal vivo a una fetta minuscola della popolazione; sono invece le istituzioni scolastiche, stato per stato, a tenere in vita il movimento, sia a livello di attività agonistica che di comunità. Chicago ne è uno degli esempi più fulgidi. Nonostante un sistema di istruzione pubblica tra i più disastrati della nazione, dove i selvaggi tagli di budget dello stato dell’Illinois si sommano ai problemi sociali tristemente endemici di molti quartieri, la città continua ad avere uno dei panorami di basket liceale più competitivi degli Stati Uniti.
Dalle storiche gemme pubbliche della città —la Whitney Young di Michelle Obama e Jahlil Okafor, e la Simeon High School che ha lanciato Derrick Rose e Jabari Parker— alle squadre dei sobborghi, che con le scuole cittadine hanno da sempre dato vita a un’acerrima rivalità. Senza dimenticare i licei sommersi nello sterminato tessuto urbano, resi famosi dai loro talenti da esportazione. Come la Farragut di Kevin Garnett, uno dei cestisti più forti mai prodotti dalla città. Nei mesi autunnali e invernali, sono queste partite ad alimentare passione ed agonismo, muovendo migliaia di parenti, seguaci ed amici in giro per l’area metropolitana. Sono incontri giocati ad intensità mostruosa: prese d’assalto da scout e addetti ai lavori, con un discreto seguito televisivo, e con tifoserie accesissime, che a volte, purtroppo, mettono in discussione il confine tra passione e violenza.
A marzo, proprio mentre impazza il torneo delle università, le squadre sopravvissute alla stagione si sfidano per il titolo statale nelle campagne dell’Illinois, in un’indigestione di partite giocate davanti a migliaia di spettatori. Tutto sommato un bel sogno da coltivare per chi cresce a Chicago, nell’attesa che i Bulls tornino grandi. Cartellone a parte, nessuno sembra avere nemmeno troppa fretta.