In Inghilterra esiste una tendenza giornalistica ben radicata, almeno per quanto riguarda lo sport: dare voce e spazio direttamente agli atleti o agli ex atleti, che pubblicano articoli con la loro firma su testate prestigiose. Ci sono le firme più tecniche, come per esempio Jamie Carragher, che sul Telegraph tiene una rubrica di commento sugli avvenimenti più importanti; e poi ci sono anche esperimenti più sociali, come per esempio quelli del Guardian, che ospita le riflessioni di Liam Rosenoir, ex difensore del Brighton, e di Eniola Aluko, simbolo del calcio femminile inglese – ha giocato anche nella Juventus – e attuale direttrice sportiva dell’Aston Villa Women. Rosenoir scriveva quando era ancora in attività, esattamente come Wayne Rooney, che da qualche settimana tiene una rubrica sul Times in cui racconta della sua carriera, in cui scrive del calcio in generale, di alcuni suoi vecchi compagni.
L’ultimo articolo è molto interessante, perché esplora un aspetto di cui si parla poco: doveri, compiti e importanza del capitano in una squadra di calcio. Rooney, in questo momento, indossa la fascia del Derby County – il club a cui si è unito all’inizio del 2020 dopo l’esperienza in MLS – e in passato ha vestito quella dell’Everton, del Manchester United (dal 2014 fino al 2017) e della Nazionale inglese.
Insomma, Rooney sa di cosa parla: «Ricoprire questo ruolo è molto più di quello che sembra, soprattutto nel calcio anglosassone: altri Paesi non danno grossa importanza a questa figura, ma da noi comporta responsabilità, tanto lavoro ma anche grandi opportunità. È un compito che richiede abilità di leadership, ma anche altre qualità: devi fare da ponte tra i giocatori e il manager, i giocatori e lo staff, la squadra e la stampa. Il tuo valore come capitano si riferisce soprattutto alla tua capacità di tenere delle relazioni, non è solo dare motivazioni e/o il buon esempio ai compagni e protestare con l’arbitro».
L’articolo, come gran parte di quelli di Rooney, diventa qui un piccolo diario di aneddoti e ricordi personali: «Quando sono stato nominato capitano allo United, mi sono confrontato con Michael Carrick e Darren Fletcher per capire cosa potesse servire al gruppo: ci siamo resi conto che i giocatori stranieri dovessero ricevere più supporto per ambientarsi, e allora il club ha creato un opuscolo per loro. Poi abbiamo chiesto che gli chef della società si recassero a casa dei calciatori perché imparassero a cucinare cibo sano, mentre in Nazionale ho suggerito che giornalisti e calciatori dovessero stare nello stesso hotel, durante i ritiri, così da migliorare i rapporti».
Sui doveri da portavoce e nei confronti dello spogliatoio e del manager, Rooney spiega: «Quando i compagni sono scontenti, si rivolgono al capitano. Che, a sua volta, deve interagire con gli altri reparti della società. Il capitano rappresenta il proprio gruppo quando si parla di contratti collettivi, ma anche nei confronti del manager, che a sua volta deve essere aiutato in alcuni aspetti, per esempio la gestione dei casi disciplinari».
In campo, il ruolo è decisamente complesso: «Il capitano deve essere a conoscenza degli aspetti tattici individuale di ogni giocatore, è lui la guida in campo quando un giocatore sembra non dare ascolto al manager, oppure ha dimenticato le sue direttive. Devi tenere gli occhi aperti, leggere il linguaggio del corpo, sentire cosa pensano i giocatori. Anche intervenire se la tattica non funziona, che non vuol dire scavalcare il manager, ma aiutarlo a capire cosa non va attraverso il confronto. Durante gli Europei del 2016, Hodgson voleva che gli attaccanti pressassero molto il portiere, ma ci siamo accorti che non funzionava bene, e allora abbiamo cambiato di comune accordo».
Proprio la fascia di capitano dell’Inghilterra comporta responsabilità ancora maggiori: «Rispetto al capitano di un club», spiega Rooney, «quello della Nazionale deve anche accogliere giocatori nuovi in un gruppo che non vive e non lavora con ritmo quotidiano. E poi ci sono doveri più frequenti e difficili con i media, c’è una pressione maggiore, perché rappresenti un intero Paese, anche di fronte alla comunità internazionale. Il rapporto con gli addetti alle relazioni con la stampa, in certi casi, è fondamentale: dopo gli attentati di Parigi del 2015, ho chiesto e ottenuto che le domande dei giornalisti ci permettessero di esporci pubblicamente sulla questione; la stessa cosa è avvenuta agli Europei 2016, quando Sterling riceveva delle critiche esagerate e io ho mi sono accordato con lo staff e un cronista perché facesse una domanda che mi avrebbe permesso di difenderlo».