Zanardi è più di un modello

Un supereroe umanissimo, che ci ha mostrato come ogni uomo, secondo il suo grado, si può riconoscere nelle avversità della vita.

È grazie a lui se quando si parla di Ironman non viene più in mente il supereroe della Marvel, ma il suo viso sorridente e ottimista. Le sue braccia muscolose e l’interminabile elenco dei suoi trionfi. Perché Alex Zanardi non è solo un atleta invincibile ma una filosofia di vita, un modo di essere, una lezione antropomorfa. Zanardi è la capacità di sorridere anche quando il destino è avverso. È coraggio, ed energia positiva. L’incidente che lo ha coinvolto sulla Strada statale di Pienza mentre era alla guida della sua handbike è solo una tappa di un’esistenza vissuta al massimo, all’ultimo respiro. Che scaccia via i brutti pensieri.

Bolognese, 53 anni, ha sempre avuto un che di sovrumano, e nel contempo di umanissimo, di mitologico e terreno. Il mondo dei motori lo cattura fin da bambino. La sua parabola è uguale a quella di tanti campioni: la trafila nei kart poi l’esordio nella F3 italiana con la Dallara-Alfa Romeo e la Formula 3000 fino all’ingresso in Formula Uno nel 1991, in occasione del Gran Premio di Spagna al volante di una Jordan. Le stagioni successive viene ingaggiato dalla Lotus dove disputerà la gran parte dei 44 gran premi della carriera. Nel ’95 saluta tutti e passa alla Cart, conquistando per due volte il titolo. Torna in Formula Uno nel ‘99 su una monoposto Williams, ma l’esperienza dura poco. Rientra negli Usa e torna in Formula Cart.

Il 2001 è l’anno in cui tutto cambia. È il 15 settembre, sono passati quattro giorni dagli attentati delle Torri Gemelle a New York, quando sul circuito del Lausitzring, vicino a Klettwitz in Germania, perde il controllo del sua Reynard Honda e viene centrato in pieno dalla Reynard Ford di Alex Tagliani che viaggia a 320 km/h. La monoposto si spezza, gira su se stessa. Zanardi subisce l’amputazione di entrambe le gambe, viene portato in ospedale a Berlino e tenuto tre giorni in coma farmacologico. Gli viene data perfino l’estrema unzione. In corpo gli rimane solo un litro di sangue, subisce sette arresti cardiaci, sono necessarie sedici operazioni. Ma sopravvive miracolosamente. I medici non si capacitano come abbia fatto. «Quando mi sono risvegliato senza gambe ho guardato la metà che era rimasta, non la metà che era andata persa», dirà con una frase diventata aforisma. Zanardi entra ufficialmente nella leggenda. Diventa un modello per quelli che credono di non potercela fare. Sposta i limiti umani un po’ più in là.

Entra nel mondo dell’handbike, una sorta di bicicletta che si muove tramite delle manovelle mosse grazie alle braccia. Gareggia nelle categorie H4 e H5. Alla maratona di New York del 2007 arriva quarto. Il 19 giugno 2010, vince i campionati italiani di ciclismo su strada di Treviso. L’anno dopo la medaglia d’argento ai mondiali in Danimarca. Il 6 novembre 2011 trionfa nella maratona newyorkese. Nel marzo successivo mette in bacheca la maratona di Roma. Fa segnare record su record.

Le Paraolimpiadi nel 2012 a Londra sono il suo sbocco naturale. Vince l’oro sia a cronometro che su strada e un argento nella staffetta a squadre mista H1-4. Al termine delle Paralimpiadi, viene scelto come portabandiera azzurro per la cerimonia di chiusura dei Giochi. Il Comitato olimpico internazionale lo nomina “Atleta del mese”. Dice: «La disabilità è un concetto relativo: se la maggioranza degli uomini sapesse volare, persino Usain Bolt si sentirebbe un disabile». Zanardi inanella successi, partecipa a trasmissioni televisive (per la Rai fa il conduttore di E se domani e Sfide), scrive libri (l’ultimo, del 2019 si intitola Quel ficcanaso di Zanardi. Osservando lo sport ho capito meglio la vita edito da Rizzoli). Insomma, è il testimonial ideale. «Le corse», spiega, «rappresentano una bella fetta della mia storia, ma non sono di certo la parte più importante. Le mie più grandi passioni sono mio figlio Nicolò, le tagliatelle al ragù di mia madre e mia moglie Daniela, non necessariamente in quest’ordine».

Eppure continua a mietere trionfi. Nel 2013 fa sua la Coppa del mondo e ai mondiali su strada di Baie-Comeau vince tre ori. Lo stesso fa nel 2014 ai mondiali di Greenville, negli Stati Uniti.  L’anno dopo ai campionati mondiali su strada di Nottwil in Svizzera, si aggiudica due titoli della categoria H5, a cronometro e in linea, e la staffetta mista. Alle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016 conquista ancora due ori e un argento. Ai mondiali altri 4 ori, 3 argenti e un bronzo. Ha cinquan’anni. «Quando sei un ventenne», spiega, «non ti rendi conto del tuo potenziale. A cinquanta sei arrivato così tante volte al confine con lo sfinimento da sapere che, se tieni duro altri cinque secondi, vinci». Ma al di là dei successi, è il modo in cui li ottiene a colpire il cuore della gente. È la forza che trova nel raccontare quanto sia davvero minima la differenza fra chi è disabile e chi non lo è. In un’epoca di ostentazione e perfezione, in cui le malattie sono nascoste, Zanardi ha mostrato a tutti che anche da un dramma possono germogliare successi e ispirazioni.

«Ammetto che essere Zanardi fa la differenza», ha raccontato tempo fa, «ma tante persone sono ferme al giorno zero, non solo perché costrette a vivere della sola pensione di invalidità, ma anche perché, pur senza colpa evidente, non hanno mai trovato la forza di tentare. Mio padre diceva sempre: “Prendi ogni giornata come una nuova opportunità per aggiungere qualcosa al servizio della tua passione e pian piano le cose accadranno”. Ecco, credo che questa sia una grande verità per andare avanti e rincorrere i propri sogni». È difficile appiccicarsi addosso la lezione di una vita tanto inusuale e straordinaria, ma tra tutti gli atleti che guardiamo, weekend dopo weekend, in televisione, Zanardi è quello da trattare più come bussola, che travalica i confini dell’ammirazione e si avvicina alla filosofia. Perché nella malattia, e nella reazione, e nelle difficoltà della vita ci possiamo, ognuno secondo il suo grado, riconoscere tutti. Ci dovremmo pensare di più. Qualunque cosa accadrà.