Kevin-Prince Boateng, durante la sua avventura al Milan, è stato protagonista di un evento di grossa risonanza nella lotta alle discriminazioni: 3 gennaio 2013, nei primi minuti dell’amichevole tra i rossoneri e la Pro Patria, è stato oggetto – insieme ai compagni di squadra Sulley Muntari, Urby Emanuelson e M’Baye Niang – di cori razzisti da parte di un piccolo gruppo di tifosi sugli spalti. Per tutta risposta, il giocatore ghanese – nato però a Berlino Ovest da padre ghanese e madre tedesca – lasciò il campo dopo essersi lamentato con l’arbitro. Il racconto di quel pomeriggio è parte di una lettera pubblicata martedì 23 giugno 2020 da The Players’ Tribune, in cui Boateng racconta tutte le discriminazioni che ha vissuto nel corso della sua vita, prima e dopo l’inizio della carriera di sportivo professionista.
Queste le parole usate dall’ex centrocampista della Fiorentina, ora in prestito al Besiktas, in Turchia: «Un gruppo di fan faceva versi da scimmia ogni volta che io o uno dei miei compagni neri toccavano la palla. Dopo 26 minuti, ho detto all’arbitro: “Se lo fanno ancora, smetterò di giocare”. Lo hanno fatto di nuovo, allora ho preso la palla con le mani, l’ho tirata sugli spalti e sono uscito dal campo. Non era la prima volta che subito insulti razziali, ma quella volta sono esploso. Quando l’arbitro ha cercato di farmi giocare, gli ho detto: “Stai zitto. Avevi il potere di fare qualcosa. Non hai fatto niente“. Quando un giocatore avversario mi ha invitato perché rimanessi in campo, gli ho detto: “Anche tu devi stare zitto. Cosa hai fatto al riguardo? Ti piace quello i tifosi che stanno facendo?».
Secondo Boateng, l’esplosione di quel giorno è riconducibile a tanti insulti razzisti ricevuti durante la sua vita: «Dentro me avevo così tanta rabbia e così tanto dolore: so che è difficile da capire per i bianchi, ma è perché non sono mai stati odiati perché la loro pelle è di un colore diverso». Il racconto di Boateng parte fin dalla sua infanzia, quando nella parte orientale di Berlino «venivo chiamato n***o durante i tornei giovanili». La sua aggressività in campo, le sue molte espulsioni durante il percorso di formazione, «erano dovute al fatto che mi guardavano male, e io a quel punto iniziai a reagire a tutte le provocazioni: la mia confusione si era trasformata in sospetto verso il mio prossimo. Anche in campo».
«La parte peggiore, però», spiega Boateng, «sono le reazioni degli altri. Dei bianchi. Nessuno mi ha mai difeso. Gli allenatori mi dicevano di ignorare gli insulti, gli arbitri non hanno mai fatto niente». Quella volta con il Milan, però, è andata diversamente: «Mentre lasciavo il campo, molte persone sugli spalti si alzarono e mi applaudirono. E poi – e questa è la chiave – i miei compagni di squadra sono usciti con me. Non solo quelli neri. Tutti quanti. Mi viene ancora la pelle d’oca a parlarne. Quando arrivai nello spogliatoio, tolsi la maglia per mostrare a tutti che non sarei tornato là fuori. L’arbitro entrò e ci chiese: “Volete continuare a giocare?” E in quel momento Ambrosini, il nostro capitano, si alzò e disse: “Se Prince non gioca, nessuno gioca”. Quell’episodio è diventato una notizia in tutto il mondo: grandi giocatori come Cristiano Ronaldo e Rio Ferdinand mi hanno sostenuto pubblicamente sostenendo, il mio telefono è stato inondato di chiamate e messaggi, durante la notte sono diventato un ambasciatore della lotta contro il razzismo. Niente di tutto ciò è accaduto perché una persona di colore è scesa dal campo. No. È successo perché i bianchi se ne sono andati con lui. Questo è stato il messaggio che ha cambiato il mondo. Almeno per un po’».
Dopo, c’è una parte in cui Boateng racconta il tentativo – molto breve e poco incisivo, in realtà – fatto dalla FIFA con una Task Force contro il razzismo: «Cosa hanno raggiunto? Cosa hanno fatto? Hanno multato le squadre 30mila euro dopo che i loro tifosi hanno cantato cori razzisti? E poi quegli stessi sono tornati allo stadio il giorno successivo? I loro figli vedranno tutto questo e lo prenderanno come esempio? Quanto valgono 30mila euro per un club di primo piano? Niente».
Ed è per questo che Boateng, in coda alla sua lettera – che non a caso si intitola “To My White Brothers and Sisters” – chiede ai bianchi, oltreché alle grandi personalità dello sport e della politica, di impegnarsi nella lotta contro il razzismo. «Abbiamo bisogno dei grandi sportivi: Colin Kaepernick, LeBron James e Megan Rapinoe. Questi sono alcuni dei più grandi: ce ne sono molti altri che stanno facendo un lavoro straordinario. Ma calciatori, club e federazioni? In Europa? A parte Marcus Rashford, che ha mostrato al mondo ciò che è possibile quando usiamo le nostre piattaforme, non vedo molto altro. Dove siete ragazzi? Dove sono i giocatori più grandi del mondo? Sento la responsabilità di invocare il loro sostegno per unirsi a me e al movimento. Posso raggiungere solo otto milioni di persone attraverso i miei profili sui social media, ma userò ognuna di esse ogni giorno. Altri calciatori hanno decine di milioni di follower. Questo è il momento per mostrare la loro faccia perché aumenti la consapevolezza da tutti, perché si crei un vero cambiamento attraverso il movimento Black Lives Matter.
«Ma, come ho spiegato prima», conclude Boateng, «la chiave è un’altra: sono fratelli e sorelle bianchi, siete voi quelli che possono cambiare questo mondo. Dovete aiutarci. Perché non volete essere trattati come noi. Alcune persone dicono “Sì, ma tutte le vite contano”. Naturalmente: tutte le vite contano. Ma la comunità nera è quella in difficoltà, oggi. Se la mia casa sta bruciando e la tua casa non sta bruciando, quale casa è la più importante in questo momento? Qual è la casa da salvare ora? Perciò chiedo il tuo aiuto. non aver paura, e non tacere. Staremo con te. Vogliamo solo sapere che stai con noi».