Storia del rapporto tra José Mourinho e i suoi attaccanti

Quindici e più anni di relazioni intense, mai banali, di amori profondi, trucchi psicologici e incomprensioni, che definiscono la carriera dell'allenatore portoghese e di una generazione di campioni.

Tra ritmi blandi, stadi vuoti e sostituzioni aumentate, non è stato facile riconoscere il calcio nell’era post-Coronavirus. Per fortuna, ci ha pensato il solito show di José Mourinho in conferenza stampa a rimettere le cose al proprio posto, regalandoci un momento calcistico estremamente familiare. Il casus belli dell’ultima guerra mediatica di Mou è stato il commento di Paul Merson, che aveva consigliato a Harry Kane di lasciare il Tottenham per mettersi in salvo dal calcio iperdifensivo del suo nuovo allenatore. Evidentemente, le parole dell’ex Arsenal sono andate di traverso al manager del Tottenham, che durante il post partita con il Manchester United ha aspettato che i giornalisti presenti menzionassero la critica così da poter ribattere. Ne è nato uno sfogo di tre minuti abbondanti, con Mourinho che ha iniziato difendendo Kane e poi ha proseguito allargando il discorso agli altri grandi attaccanti che ha allenato in carriera, da Drogba a Cristiano Ronaldo, citando dati generalmente corretti – tranne quelli di Drogba, con i quali ha fatto confusione tra presenze (186) e gol (73). Questo ennesimo round del match tra il portoghese e i giornalisti apre una finestra interessante sul rapporto tra Mourinho e le sue prime punte. Un aspetto fondamentale per comprendere meglio i successi, i fallimenti e l’attitudine  dell’allenatore lusitano in tutta la sua carriera, ma anche per provare a immaginare ciò che succederà in futuro.

Complice la piega decadente della sua idea di calcio, sempre più reazionaria e sfacciatamente difensivista, tendiamo a dare per scontato che le squadre di Mourinho siano sempre state così desolanti dalla metà campo in su, e che la mole di lavoro difensiva e lo scarso possesso palla abbiano sempre svilito il gioco delle sue prime punte. Eppure, basta scorrere tra le dichiarazioni di alcuni dei giocatori citati da José per rendersi conto che la realtà è un’altra: nella battaglie campali combattute da Mourinho, in prima linea ci sono sempre stati un sacco di attaccanti pronti a difenderlo usando un lessico militaresco. Ibrahimovic ha dichiarato che «per Mourinho avrebbe ucciso», Drogba che ci sarebbe andato «in guerra assieme», Lukaku di essersi sentito «il suo sergente in campo».

Tanti suoi ex attaccanti, poi, lo hanno difeso anche a distanza di anni, come quei soldati giapponesi ancora spersi nella giungla nonostante la resa dell’Imperatore. Samuel Eto’o, che pure litigò con Mou durante la parentesi al Chelsea, lo difende con la stessa abnegazione con cui chiudeva diagonali difensive al Camp Nou; ancora Lukaku ha detto che «se allo United avesse avuto i giocatori che chiedeva le cose sarebbero andate molto meglio»; secondo Diego Costa, poi, al Chelsea Mourinho «fu criticato oltre i suoi demeriti». Una prima ragione di questo attaccamento è puramente tattica: le migliori squadre di Mourinho sono sempre state solide e spietate, ma al contempo capaci di folate offensive di livello assoluto. Nel corso degli anni, i giocatori costretti a pagare la severità e la pesantezza dei compiti tattici assegnati da Mourinho sono stati quelli schierati come ali e/ centrocampisti offensivi, molto più che le prime punte – soprattutto se adatte al gioco diretto e verticale amato da Mou.

Mourinho, quindi, ha effettivamente le sue ragioni nel rivendicare il rendimento positivo degli attaccanti nel suo sistema. Il motivo, però, è psicologico molto prima che tattico. Gli attaccanti sono, per forza di cose, i giocatori più umorali in campo: il loro stato d’animo cambia in funzione di un momento effimero come il gol, quindi è costantemente sospeso tra l’estasi e la depressione. A seconda che il pallone entri con costanza o no, le punte oscillano tra onnipotenza e inettitudine nel giro di una stagione, di un mese, addirittura nel corso della stessa partita. Per larghi tratti della sua carriera Mourinho è riuscito come pochi altri a toccare le corde emotive giuste, trovando di volta in volta la chiave migliore per ottenere quello che cercava dai suoi attaccanti: gol e dedizione alla causa.

Nel 2002, per esempio, il Porto esonera il tecnico Octávio Machado, che aveva convinto la dirigenza ad acquistare Benni McCarthy. Dopo l’addio del suo mentore, l’attaccante sudafricano era comprensibilmente spaesato: «Non potevo credere che l’uomo che mi aveva voluto al Porto era stato licenziato». Il sostituto di Machado è José Mourinho: «Arriva questo giovane coach», ha raccontato McCarthy, «e e mi dice: “Ti conosco e ti ho già visto giocare, Benni. Sei un attaccante fantastico e voglio che tu diventi uno dei miei. Io per te ci sono sempre se vuoi parlarmi, anche solo per toglierti un peso”. Ho iniziato letteralmente a piangere, ho pensato wow, una cosa così non mi era mai successa in Europa». McCarthy diventa un pretoriano di Mourinho, che considera come un padre da non deludere, e ritrova la fiducia necessaria per segnare 20 gol in 23 partite, molti dei quali decisivi per la vittoria della Champions 2003-04. A sedici anni da quel trionfo, Benni McCarthy è entrato a far parte dello staff tecnico di Mourinho al Tottenham.

Al Chelsea, Mourinho arriva insieme a Didier Drogba. Inizialmente, il centravanti ivoriano si sente schiacciato dalle difficoltà di ambientamento e dal peso dei 36 milioni sborsati da Abramovich per strapparlo al Marsiglia, e allora medita l’addio. Il tecnico portoghese chiede a Drogba di restare, lo rassicura sulla sua importanza nel progetto ma allo stesso tempo lo pungola con un discorso che gli svolterà la carriera: «Se vuoi essere l’unico re, torna nella squadra dove giocavi prima e segna 100 gol. Ma qui al Chelsea ci sono 22 re, quindi devi accettarlo e lavorare insieme a me e a loro. Oppure andare via». Il rendimento di Drogba inizia a migliorare, poi esplode nella stagione 2006/07, quando l’ivoriano segna 33 gol. Più di quanti ne avesse mai realizzati in una sola annata al Marsiglia.

Nell’unica annata di Eto’o con Mourinho all’Inter, quella del Triplete, l’attaccante camerunese ha accumulato 16 reti in 48 partite (Cristophe Simon/AFP via Getty Images)

Nel 2008, Zlatan Ibrahimovic rideva come un matto davanti allo schermo del suo cellulare. Non gli sembrava vero che Mourinho gli avesse inviato un sms per commentare le sue prestazioni all’Europeo e per dirgli quanto non vedesse l’ora di lavorare insieme all’Inter. La scintilla tra i due scocca subito, ma per tenere vivo il fuoco Mourinho deve dar fondo ai suoi raffinati trucchi mentali. Con Zlatan non si tratta di ricostruire la fiducia di un giocatore in crisi d’identità, ma di tenere a bada un ego spropositato. Il mind trick più efficace per stimolare Zlatan era molto semplice: indifferenza totale. Nell’autobiografia di Ibrahimovic c’è un passaggio fondamentale in questo senso: «Soltanto una cosa in realtà mi infastidiva: la sua espressione quando giocavamo. Qualsiasi numero facessi, qualsiasi gol, era sempre ugualmente gelido. Facevo cose incredibili e vedevo Mourinho lì sempre con la stessa faccia».

Zlatan passa la stagione a segnare gol insensati – dal tacco contro il Bologna in giù – eppure Mourinho non fa una piega. Mentre San Siro si stropiccia gli occhi, il portoghese resta impassibile, come se stesse guardando un benzinaio fargli il pieno di diesel. I complimenti di José sono talmente rari che Zlatan in un certo senso ne diventa dipendente. Scaldare il portoghese diventa una questione personale, Ibra si ripete: «Io riuscirò a scuoterlo, dovessi fare un miracolo. In un modo o nell’altro costringerò quell’uomo a esultare!». Rincorrendo una smorfia di approvazione di Mourinho, lo svedese gioca la sua migliore stagione a livello realizzativo fino a quel momento.

Il rapporto di Mourinho con i suoi attaccanti tocca il suo apice nell’anno di grazia 2010. L’Inter del Triplete è l’incarnazione più riuscita delle idee dell’allenatore portoghese: la solidità difensiva, la mentalità noi contro tutti e il rendimento degli attaccanti, ovviamente – che fosse realizzativo, come quello di Milito, o difensivo, come quello di Eto’o. La metamorfosi del camerunese nella seconda parte di quella stagione è forse l’episodio più celebre dell’influenza di Mourinho sugli attaccanti che ha allenato. In un’intervista, Eto’o ne ha rivelato la genesi: «Dopo la pesante sconfitta contro il Catania urlò contro di me dicendo che pensavo solo alla mia immagine. Il giorno prima di Chelsea-Inter mi disse che gli avrei fatto vincere la partita. Diventai laterale perché mi assicurò che in questo modo sarei diventato nuovamente campione d’Europa». Eto’o è un attaccante molto più orgoglioso e pieno di sé di quanto suggeriscano quei sei mesi passati a sgobbare sulla fascia sinistra. Ha accettato quel sacrificio solo perché a chiederglielo è stato un allenatore in grado di motivarlo e di convincerlo che quei rientri difensivi sarebbero stati ripagati con una vittoria in Champions. In momenti come questi, Mourinho si è dimostrato un illusionista: ha fatto credere ai propri giocatori di essere in grado di controllare il caos che è il calcio, li ha convinti di essere quasi onnisciente e che se avessero fatto quanto gli chiedeva avrebbero vinto tutto. Il crollo di Mourinho è essenzialmente il crollo di quell’illusione di controllo. 

Nelle tre stagioni con Mourinho sulla panchina del Real Madrid, Ronaldo ha tenuto una media realizzativa superiore a un gol per match: 168 reti in 164 gare ufficiali di tutte le competizioni (Jasper Juinen/Getty Images)

Le prime crepe si sono viste a Madrid e hanno finito per riversarsi sul rapporto con i suoi attaccanti. Se quello con Benzema è sempre stato freddo (Mourinho lo definì «un gattino che doveva imparare a cacciare come un levriero», paragone che Karim prese malissimo), la relazione con Ronaldo è quella più varia e quindi interessante: nei tre anni vissuti con l’allenatore suo connazionale, l’attaccante portoghese ha scollinato per la prima volta in carriera il traguardo dei 60 gol stagionali, senza scendere sotto i 53 nelle altre due.

José lo ha motivato come faceva con Ibra, ovvero limitando i complimenti al minimo indispensabile e pungolandolo nell’orgoglio per spingerlo a dare sempre di più. Emmanuel Adebayor ha raccontato che, dopo una partita in cui Ronaldo aveva segnato una tripletta, Mourinho sbraitò in faccia al suo connazionale con parole incredibilmente dure: «Tutti dicono che sei il migliore del mondo, ma stai giocando malissimo. Fammi vedere se sei forte davvero». Se queste stilettate hanno comunque contribuito a rendere Ronaldo la macchina da gol che è diventato, il problema è che il rapporto tra i due non è mai decollato a livello personale, ed è finito per schiantarsi in una partita del 2013 contro il Valencia, quando l’allenatore se la prese per un mancato ripiegamento difensivo di CR7. Il giocatore la prese malissimo e da quel momento si iscrisse definitivamente alla frangia di ribelli dello spogliatoio capeggiata da Sergio Ramos e Iker Casillas, favorendo l’addio del tecnico a fine stagione.

Da lì in poi, fatto salvo per la stagione del titolo al Chelsea, il declino di Mourinho è stato sempre più triste ed inesorabile, sul lato tattico come su quello relazionale. Insieme a tre semifinali di Champions, Mourinho a Madrid perde larga parte del carisma che lo rendeva irresistibile per i suoi giocatori. Episodi d’insubordinazione come quelli di Sergio Ramos ed Eden Hazard – che lo accusarono di non capirli perché non aveva mai giocato ad altri livelli – sarebbero stati impensabili prima e invece diventeranno all’ordine del giorno durante le sue esperienze precedenti.

Dopo un anno vissuto insieme all’Inter, Ibrahimovic e Mourinho si sono incrociati nuovamente a Manchester, nelle stagioni 2016/17 e 2017/18: per lo svedese, score totale di 29 gol in 53 partite di tutte le competizioni (Ben Hoskins/Getty Images)

Siamo ai giorni nostri. Un tempo in cui Mourinho continua ad avere rapporti difficili con i giocatori – a Manchester ha avuto problemi con Pogba, qualche giorno fa c’è stato lo strappo con Ndombélé – e in cui gli attaccanti che sono rimasti a difendono, i vari Lukaku, Diego Costa, Ibrahimovic, erano stati scelti accuratamente da José, selezionati per il loro stile di gioco e per la loro dedizione alla causa. Harry Kane invece non ha scelto Mourinho e Mourinho non ha scelto Kane. Il rapporto tra il portoghese e il suo ultimo grande attaccante è dunque ancora in fase di costruzione, poi la stella del Tottenham è rimasto a lungo fuori a causa di un infortunio e quindi ha perso diversi mesi di preparazione e di interlocuzione con il suo nuovo manager.

Poche ore dopo la conferenza stampa in cui ha attaccato Paul Merson, Kane ha segnato e Mourinho lo ha ribattezzato Hero Kane. L’attaccante della Nazionale inglese ha definito Mourinho «uno dei manager migliori del calcio, un allenatore da cui puoi solo imparare», aggiungendo poi di non avere nessun problema con lo stile di gioco del portoghese. Troppo presto per dire se queste parole rappresentino un endorsement convinto o se siano solo frutto di diplomazia. Quello che è certo è che se vuole invertire la rotta della sua carriera, Mourinho non può prescindere dal rapporto con l’ultimo dei suoi grandi attaccanti.