Il calcio in una nuova veste. Alla moda

Collezioni streetwear, passerelle, collaborazioni con giganti della moda: il calcio è finalmente diventato cool. Ma il potenziale è ancora molto vasto: la sfida è modellare un’intera cultura, e definirla in un senso nuovo all’esterno.

Che il calcio sia presente nella vita di tutti i giorni, anche quando rimane fermo come è successo negli ultimi mesi, lo si intuisce anche nelle cose più piccole, in quelle che passano perlopiù inosservate. Mentre i calciatori e noi tutti eravamo costretti a chiuderci in quarantena, la nuova collezione Sportswear di Nike ha svelato due maglie con un motivo che, ai cultori del design delle maglie da calcio, non poteva che ricordare il pattern “alato” sulle maniche della divisa del Borussia Dortmund del 1994, poi replicato per la Nigeria nell’anno successivo. Dietro quel design c’era una specifica ragione: «La grafica delle ali», ricordò il designer Nike di quella maglia, Drake Ramberg, «era ispirata allo stemma della città di Dortmund, che ha un’aquila». Venticinque anni dopo, il legame storico-identitario diventa tenue: resta un’eredità stilistica, che nasce nel mondo del calcio e dilata i suoi orizzonti nel campo dello sportswear e dello streetwear.

È un esempio tutt’altro che isolato – che dire delle ultimissime track jacket di Supreme, decisamente ispirate ad alcuni vecchi modelli dell’Inter degli anni Novanta? Il mondo del fashion si è accorto del calcio, finalmente. Le sperimentazioni di alcuni brand – in particolare legati a certe sottoculture – da una parte e le collaborazioni di alcuni tra i più importanti club di calcio con realtà della moda dall’altra hanno definito un nuovo scenario. La contaminazione di codici ha avuto l’ovvia conseguenza per il calcio di sconfinare in nuovi mondi, di aprirsi a nuove culture, come da anni succede alla sneaker culture e all’iconografia del basket. Chi ha detto che il calcio – che resta lo sport più popolare e seguito al mondo – non possa e non debba seguire lo stesso processo?

È necessario però che il sistema intero, e i club in particolare, facciano uno sforzo in questo senso. Finora, è stato il mondo della moda e dello streetwear ad avvicinarsi al calcio, raramente viceversa: ma le cose devono necessariamente cambiare. Nei lunghi mesi senza calcio giocato i club hanno fatto i conti con un drammatico calo dei ricavi – niente partite, niente incassi al botteghino e un grosso punto interrogativo per quanto riguarda i diritti tv. È il momento giusto, per ogni club, di capire come affrontare le sfide del futuro, in due sensi sdoppiati e sovrapponibili: diversificare il proprio business e accrescere la propria brand awareness. Chi bolla questo processo come la mercificazione del calcio, come una non meglio precisata perdita di “purezza”, non ha inteso il mondo, ancor prima che il calcio. Se il sistema non diventa sostenibile, muore.

Farsi largo nel mondo fashion è ovviamente solo una tra numerose possibilità, ma è una strada che, con lo scenario a cui si è accennato prima, potrebbe pagare i suoi dividendi. I club più avanti in questo processo – come Juventus e Paris Saint-Germain – hanno tratto un enorme ritorno, anche in meri termini di visibilità: se Rihanna si è fatta vedere allo Stadium poche settimane dopo il lancio della collezione che univa Juventus a Palace via adidas (il fratello minore indossava due pezzi del drop), non è stato certo un caso. Ecco, quanto fatto dai bianconeri nello scorso ottobre può rappresentare il modello di riferimento per ogni club: l’associazione con un brand non calcistico (per allargare la propria platea oltre il tifo tradizionale) di un progetto che – concetto sommamente importante – viva all’interno del campo. L’originalissima maglia bianconera con tinte fluo firmata Gabriel Pluckrose di Palace ha debuttato in campo, nel match casalingo contro il Genoa, e pochi giorni dopo è stata lanciata l’intera collezione, andando immediatamente sold out. Mossa perfetta, perché tutto si tiene insieme – lo stile fuori e dentro il campo, Rihanna e Cristiano Ronaldo testimonial diversi della stessa dimensione.

Se per i top club proiettarsi in avanti sotto questo aspetto è indubbiamente più semplice, non vuol dire che quest’ambito sia precluso alle società più piccole. Per citare un caso nato durante il lockdown, la maglia che il Pescara ha prodotto con Erreà sulla base del disegno del piccolo tifoso Luigi, raffigurante un delfino che si staglia su un arcobaleno, ha avuto un’attenzione mediatica internazionale, altrimenti difficilmente ottenibile da un club della nostra Serie B. Del resto, anche le squadre più lontane dalla ribalta hanno il loro merchandising, ma quasi sempre si tratta di prodotti standard, facilmente dimenticabili. Non sarà certo lo sponsor tecnico – di certo più attento a “coccolare” i clienti più importanti – a imprimere una svolta. Perciò la consapevolezza – e qui si torna a quanto si diceva prima – deve arrivare dalle società: associarsi a designer emergenti, sfruttare ricorrenze particolari (siamo pieni di maglie celebrative, perché non spingersi un po’ oltre?), presidiare un mercato in grado di coinvolgere un pubblico più allargato dell’abbonato decennale. La curiosità per le maglie da gioco c’è da sempre, a ogni livello e latitudine: convogliare quella curiosità in nuovi sbocchi – dove è concesso più spazio alla libertà di espressione creativa, quando le maglie sono tuttora le depositarie della tradizione e dell’identità – è un’opportunità troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.

Da Undici n° 33