Perché la Champions del Bayern è il trionfo della programmazione

Nuove generazioni e antiche certezze: il Triplete del club bavarese nasce da lontano, ma è già proiettato nel futuro.

Nella Champions League 2018/19, il Bayern Monaco è uscito agli ottavi di finale contro il Liverpool al termine di un doppio confronto che sembrava senza storia fin dal sorteggio, e che in effetti si è risolto con una netta vittoria dei Reds all’Allianz Arena per 3-1. Era la prima volta dal 2011 che la squadra bavarese non riusciva ad accedere almeno ai quarti di finale, sembrava fossimo di fronte alla fine di un ciclo, o comunque alla vigilia di una rifondazione molto profonda per una squadra che aveva fatto il suo tempo. Ieri sera, un anno e mezzo dopo la sconfitta contro il Liverpool di Klopp, il Bayern Monaco ha vinto la sesta Champions League della sua storia. Lo ha fatto con pieno merito, senza discussioni, al termine di un percorso perfetto, undici vittorie in undici partite, 43 gol fatti e otto subiti. La rete decisiva nella finale contro il Psg è stata realizzata da Kinglsey Coman, un giocatore acquistato cinque anni fa pochi giorni dopo il suo 19esimo compleanno, e che il Psg – proprio il Psg – aveva perso a parametro zero nel 2014, quando si era accordato con la Juventus.

La sensazione che questo Bayern, o almeno parte di esso, fosse arrivato a fine corsa – dopo gli splendidi anni di Heynckes e Guardiola, dopo le parentesi non proprio positive di Ancelotti e Kovac – era condivisa dagli stessi dirigenti del Bayern. Ad aprile 2019, poche settimane dopo l’eliminazione patita contro il Liverpool, l’allora presidente Hoeness aveva annunciato che «era arrivato il momento di investire grosse somme sul mercato, in modo che il Bayern possa avvicinarsi ai club più importanti d’Europa». Queste parole hanno avuto un seguito: nella sessione di mercato dell’estate 2019, è stata effettivamente avviata una rifondazione partendo dalla difesa, sono arrivati Pavard per 35 milioni e Lucas Hernández per 80 milioni. Poi però si era avvertita una certa confusione progettuale, soprattutto nel momento in cui Leroy Sané, il grande sogno di mercato, l’obiettivo numero uno per ricostruire la squadra, si era procurato un gravissimo infortunio. Allora il Bayern ha preso giocatori un po’ “riciclati”, elementi di facciata, dei ripieghi scenici: sono arrivati Perisic e Coutinho con la stessa formula che aveva condotto James Rodríguez in Germania – un’altra operazione che non aveva portato grandi risultati, anzi.

Il Bayern sembrava essersi fermato ma in realtà non è mai stato davvero fermo, aveva già assemblato la rosa del futuro; il modello messo a punto negli anni dai dirigenti bavaresi è risultato essere più dinamico e più forte delle diffidenze interne, dei problemi che comunque si erano manifestati, bisognava solo aspettare e/o fare in modo che tutti i tasselli andassero al loro posto perché la storia potesse compiersi, di nuovo. Non a caso, tutti i nuovi acquisti di questa stagione hanno inciso poco, o comunque in maniera non determinante, sulla vittoria in Champions League. Il trionfo di Lisbona – poche settimane dopo quelli in Bundes e in Coppa di Germania – nasce da molto più lontano, è il frutto di un lavoro che ha portato all’acquisto di giocatori come Coman, Davies, Goretzka e Gnabry, alla loro valorizzazione accanto al gruppo dei veterani. È la storia, la cultura del Bayern Monaco che hanno dimostrato di essere ancora avanguardia, o per meglio dire di essersi evolute, di aderire perfettamente al calcio e al business sportivo del nostro tempo.

Dal punto di vista finanziario, infatti, il Bayern Monaco non ha fatto altro che aggiornare la sua gestione storica all’era postmoderna: come ha spiegato Calcio&Finanza in questo articolo, la differenza strategica rispetto al Psg è significativa solo per quanto riguarda la quantità di denaro investita sul mercato dei calciatori a titolo definitivo, ma ricavi e costo della rosa sono sostanzialmente simili. Semplicemente, il Bayern compra calciatori in maniera più oculata, spalma su più anni i suoi investimenti, spende tanto soprattutto per mantenere i suoi migliori giocatori in organico, ha sempre lavorato in questo modo e quindi oggi sa farlo molto meglio degli altri. Per far capire cosa intendiamo: Coman è stato acquistato per 28 milioni di euro pagati nell’arco di due stagioni; Davies è arrivato 18enne direttamente dal Canada, dai Vancouver Whitecaps, per 10 milioni di euro; Goretzka ha firmato a titolo gratuito, mentre per Gnabry sono stati investiti otto milioni di euro quando era considerato un ex grande talento senza futuro, dopo aver lasciato l’Arsenal per il Werder Brema. Sono state tutte operazioni di prospettiva, rischiose, che quindi potevano anche rivelarsi fallimentari. È successo, anche il Bayern può sbagliare: nel 2016, per esempio, il 18enne Renato Sanches fu acquistato dopo uno splendido Europeo per 35 milioni di euro. Oggi gioca nel Lille, e nel frattempo è stato pure girato in prestito allo Swanseam con esiti a dir poco deludenti. Negli ultimi sette anni, oltre a Goretzka e Lewandowski, sono arrivati a parametro zero anche Kirchoff, Rode e Rudy: tutti calciatori spariti nel nulla, più o meno.

In campo, questa capacità di rinnovarsi, di (auto)rigenerarsi, è stata alimentata in maniera forse più casuale, almeno per quanto riguarda il ruolo di protagonista. La dirigenza bavarese ha “sbagliato” gli ultimi due allenatori, Ancelotti e Kovac sono stati entrambi sostituiti, eppure il Bayern 2019/20 ha mostrato un gioco gioco brillante, moderno, con cui ha dominato praticamente tutte le partite di questa Champions – tranne la finale. Il merito va ascritto a Hans Flick, sconosciuto o quasi fino a pochi mesi fa, che è diventat il primo tecnico della storia a vincere il Triplete dopo aver sostituito un collega: l’ex vice di Kovac e Lõw, dal 2005 senza un incarico da allenatore in prima, ha interpretato alla perfezione i segnali e le richieste dei suoi giocatori, da sempre portati a un gioco ambizioso, aggressivo in difesa e multiforme in fase offensiva. Da quando ha preso possesso della panchina bavarese, inizialmente come traghettatore e poi come allenatore a lungo termine, Flick ha esasperato il pressing ultraoffensivo sul possesso palla degli avversari, accentuando anche i rischi in transizione negativa, mentre in attacco ha scelto di applicare un sistema fluido, con Thiago Alcántara a organizzare la manovra, Lewandowsi a caccia del gol, mentre Müller si muove con assoluta libertà e tutti i giocatori creativi della rosa (Coman, Gnabry, Perisic, Coutinho) si scambiano la posizione sugli esterni, e i terzini (Pavard e Hernández prima dei loro infortuni, poi Kimmich e lo spettacolare Alphonso Davies) si sovrappongono con impressionante continuità, all’interno e/o all’esterno.

Kingsley Coman e Serge Gnabry festeggiano la rete con cui il Bayern ha battuto il Psg nella notte di Lisbona: è la prima volta nella storia della competizione che un calciatore segna un gol dell’ex nella finale (Manu Fernández/Pool/AFP via Getty Images)

Il concetto-chiave del Bayern di Flick è la velocità: i giocatori difendono in maniera veloce, cioè vogliono recuperare istantaneamente il pallone, attaccano in massa e in maniera veloce, pensano in maniera veloce, fanno viaggiare il pallone – a pelo d’erba o anche in aria – in maniera veloce. Come detto, è un approccio che comporta molti rischi, soprattutto contro avversari in grado di ribaltare il fronte di gioco con la stessa rapidità, con buona tecnica: il Psg e il Lione, non a caso, sono state le squadre che hanno creato più problemi e maggior stress al sistema difensivo di Flick.

A quel punto, però, a risultare decisivo è stato il talento individuale: Neuer ha fermato Neymar in finale, Boateng, Süle e Alaba, i tre centrali che si sono alternati nelle ultime gare di Champions, hanno mostrato di possedere l’intelligenza e la prontezza necessarie per controbilanciare l’eccessiva esuberanza offensiva di Davies, per coprire i movimenti avanzati di Kimmich – un degno successore di Lahm, terzino classico ma anche costruttore di gioco a tutto campo. I perfetti ripiegamenti di Goretzka e il sacrificio di tutta la squadra in fase di non possesso hanno fatto il reato. Non a caso, il Bayern ha incassato tre gol in tutta la fase a eliminazione diretta della Champions – di cui due nell’ormai leggendario 8-2 contro il Barça – e ha vinto 33 delle ultime 36 partite disputate, con 22 vittorie consecutive in tutte le competizioni da febbraio a oggi. Dovrebbero essere degli indizi convincenti sul fatto che abbiamo visto trionfare una squadra fortissima, efficace in tutte le fasi di gioco, costruita in maniera praticamente perfetta.

Lewandowski festeggia la prima Champions League vinta nella sua carriera, al termine di un anno in cui ha tenuto una media realizzativa spaventosa: 47 partite di tutte le competizioni, 55 gol segnati (Manu Fernández/Pool/AFP via Getty Images)

Talmente perfetta che i margini di miglioramento sembrano ancora enormi, nonostante i trofei già alzati al cielo: la rosa ha un’età media di 25,5 anni, e il suo valore complessivo è cresciuto del 15% in un solo anno – dai 790 milioni di agosto 2019 ai 928 di oggi. In virtù di tutto questo, si potrebbe pensare e dire che i successi di questa stagione siano arrivati in maniera inattesa, che magari il nuovo progetto abbia raggiunto il suo apogeo prima di compiersi davvero, prima che Leroy Sané, l’uomo-franchigia individuato da anni ed effettivamente approdato a Monaco, potesse scendere in campo con la sua nuova maglia bianca e rossa, con il numero dieci sulle spalle.

Ma il punto è proprio questo: il Bayern ha vinto e non è una sorpresa, non può esserlo, solo che l’adattamento del suo modello – in campo e fuori – è avvenuto in maniera così rapida e violenta che non ce ne siamo accorti, ci siamo distratti un attimo e siamo stati travolti dalla forza delle idee, della storia. Così ora Neuer, Müller, Alaba e Boateng sono lì ad alzare un’altra Champions League, l’ennesimo grande trofeo, così ora Robert Lewandowski festeggia il coronamento di una carriera incredibile e di una stagione irripetibile, ma intanto accanto a loro è nato e si è già affermato un gruppo tutto nuovo, un gruppo giovane e brillante, che un anno fa sembrava destinato a far rimpiangere per sempre l’era di Robben e Ribery e un anno dopo ha già compiuto un’impresa identica a quella del 2013, grazie al supporto e alla programmazione un club che dava l’impressione di essersi fermato e invece aveva già immaginato e creato il suo futuro, un futuro inevitabilmente diverso rispetto al passato, ma altrettanto luminoso, altrettanto vincente.