Facciamo una prova: in quarantena avrete visto tutti The Last Dance ma anche Sunderland ’til I die, no? Tornate comunque su Netflix e rinfrescatevi un attimo la memoria. Poi spegnete, e un istante dopo aprite subito le pagine sportive di un quotidiano, di un sito, guardate un servizio sul calcio di un tg. Fatto? Fa effetto, vero?
Fa effetto perché questi mesi chiusi in casa ci hanno fatto capire delle cose. La prima: senza sport non sappiamo stare (e vabbè, questa potevamo saperla anche senza metterci alla prova). La seconda è che, se non lo giocano, vogliamo comunque che almeno ce lo raccontino in un modo diverso, in un modo nuovo. Ci siamo tutti affinati: proprio perché ci manca così tanto vogliamo sentirlo, viverlo, respirarlo. Chiariamoci: non è che ogni settimana si può avere una saga di MJ e Pippen che sconfiggono tutti, non è quello il discorso. Ci riabitueremo subito ai nostri highlights e ai nostri bar sport, non c’è da dubitarne. Quello che è cambiato – e, bisognerebbe dire, quello da cui si dovrebbe ripartire – è il modo in cui il calcio può arrivare a chi lo ama: nei linguaggi, ma anche nelle piattaforme e – figuratevi se non tornava il termine – nelle emozioni che vuole trasmettere.
«A dire la verità», osserva Fabio Guarnaccia, direttore di LINK – Idee per la tv, «già dagli ultimi mesi prima del Covid-19 molte cose erano chiare, il trend era evidente. Come in altri campi la pandemia si è rivelata un acceleratore di cambiamenti e tendenze, non li ha provocati ex novo». In effetti che le società di calcio fossero delle media company era già ovvio da tempo, così come che il campionato fosse oramai un format: una serialità spezzettata, con partite spalmate su più giorni, ad uso (e soprattutto consumo) televisivo. «Ma scusa», dice ancora Guarnaccia, «pensa solo alla Champions: la musica, la spettacolarizzazione, se non è un format quello! Che infatti si vende benissimo in tutto il mondo, ormai a prescindere dal valore sportivo e calcistico in sé».
Il calcio quindi è in cerca di nuovi territori mediatici (ed economici) già da tempo: basti pensare, giusto per stare in Italia, a First Team, la serie sulla Juventus che tanto aveva fatto discutere. «Sì, ma gli esempi sono tanti, mi viene subito in mente anche All or Nothing sul Manchester City: Netflix e Amazon sono veicoli per conquistare i mercati globali». Però perché noi, nel senso di noi italiani, non siamo in grado di farci il nostro The Last Dance, a prescindere dalla storia, oppure il nostro Sunderland ’til I die? «Beh, calma, intanto siamo ancora in fase sperimentale, in evoluzione. E poi perché tutti stanno capendo che quella patina corporate, quel dominio del marketing, alla fine non paga: a premiare semmai è il racconto, l’epica, la storia. Sunderland, certo, ma anche Boca Juniors Confidential».
Vero, ma i sudamericani però sono sempre così esagerati quando si parla di calcio: prendi Apache, il film sulla vita di Carlos Tévez, che è una specie di Narcos misto a Gomorra con il quale è difficile immedesimarsi, anche se il principio è sempre quello: le emozioni e le storie vengono prima di tutto.
Più che altro, invece, una delle cose che pensavo mentre guardavo le puntate sulla sventura del Sunderland era che in effetti la società si era presa un bel rischio: fai girare una serie per raccontare la promozione e invece ti ritrovi una disfatta tragica sull’ennesima retrocessione: «È esattamente quello: il rischio. Devi investire», spiega Guarnaccia, «senza sapere cosa accadrà. È in questo senso che mi riferivo al modo in cui sta cambiando il marketing: prima viene il racconto, prima di tutto. Ma pensa cosa sarebbe stata una serie, raccontata dall’interno, sulla stagione irripetibile che portò il Leicester a vincere il campionato».
Il calcio spettacolo, il campionato format, dove a funzionare sono il pathos, l’epica e le storie di riscatto: «Come appunto in Apache, è un po’ lo stesso meccanismo dell’hip hop: gli underdog che ce la fanno. O se vuoi essere più televisivo: è lo stesso meccanismo dei talent». Ah, quindi il marketing c’entra sempre: «È quello che tecnicamente si chiama branded content: la veicolazione di valori connessi al brand, cioè alla squadra, e a quello che la società vuole essere, attraverso il racconto».
Qui l’illuminazione: ma quindi finalmente conta di più chi scrive, chi pensa e chi gira rispetto ai colletti bianchi tutti strategie aziendali? «Beh», sorride, «non so se la metterei proprio così. Di certo c’è che un ruolo sempre più importante e preponderante lo svolge lo showrunner, chi pensa e realizza la serie. D’altronde abbiamo detto che a vincere in questa fase è il racconto, no? Ecco: il racconto però deve essere racconto, fatto da chi sa raccontare». Giusto: siam sempre qui a lamentarci che il calcio è finto, non autentico, imborghesito. Contrordine: ora è il momento delle emozioni. Finalmente. Emozioniamoci, allora. O almeno facciamo finta.