Uno degli elementi che hanno reso il Tour de France uno degli eventi sportivi più grandi del mondo, con le strade piene di tifosi in trasferta e gli ascolti televisivi alle stelle – senza la concorrenza di altri sport, anch’essi in vacanza – è l’estate. Ma il 2020 è un’eccezione in tutti i campi delle attività umane, così la Grande Boucle arriva quest’anno con le giornate che già si accorciano, anticipando di poco la campanella del ritorno a scuola.
Il Tour del 2020 nasce da una combinazione di imprevisti. Il rinvio di date è stato solo il primo, cui ha fatto seguito un avvicinamento alquanto burrascoso. La corsa che nasceva dalla grande sfida tra le due corazzate del ciclismo odierno (Ineos vs Jumbo) ha visto nelle ultime settimane dimezzarsi i capitani delle due formazioni, con Chris Froome e Geraint Thomas lasciati a casa per deficit di condizione, Steven Kruijswijk appiedato da una caduta e pure i superstiti Primož Roglič ed Egan Bernal alle prese con malanni che lasciano dubbi su come stiano realmente. In mezzo c’è una pandemia che non sembra essersi troppo placata e un percorso aperto a un gran numero di possibilità.
Troppa carne al fuoco? Quanti imprevisti può affrontare una corsa ciclistica? La storia ci dice che, in uno sport in cui il caso recita un ruolo così preponderante, il loro numero è potenzialmente infinito. Le prossime tre settimane sono pronte a smentirci, o a confermare con clamore il sospetto che quello che sta per cominciare sarà un Tour memorabile, comunque vada.
Un unico paniere – La Ineos è ancora la squadra da battere
Mercoledì 19 agosto, in un colpo tweet solo, la Ineos si è liberata del suo passato, di cinque maglie gialle e – stando alle parole di Luke Rowe – di due panieri. L’esclusione di Geraint Thomas e di Chris Froome dalla selezione per il Tour de France rappresenta una svolta epocale per gli inglesi, da più punti di vista: innanzitutto – e sembra già un manifesto – il Tour 2020 sarà il primo nella storia senza nemmeno uno tra Thomas e Froome al via. Sublimando un processo di rinnovamento generazionale già in corso e accogliendo appieno le indicazioni sullo stato di forma dei suoi corridori fornite dalle corse più recenti, il team manager David Brailsford ha preferito infarcire la sua formazione di scalpitanti facce nuove, piuttosto che concedere un altro giro di giostra agli acciaccati capitani di lungo corso.
Andrey Amador, Richard Carapaz e Pavel Sivakov sono al loro primo Tour con la squadra; Jonathan Castroviejo e Dylan van Baarle al secondo; Egan Bernal al terzo. La vecchia guardia è rappresentata soltanto da Michał Kwiatkowski e dal già citato Rowe: per una squadra piuttosto tradizionalista in materia di approccio alle corse, è una mezza rivoluzione. Aggiungiamo a tutto ciò un nuovo cambio di nome (al Tour 2020 la Ineos si chiamerà Ineos Grenadier, come il nuovissimo SUV di casa) ed ecco completata l’idea che quella che vedremo sulle strade francesi nelle prossime tre settimane sarà una squadra diversa, per molti versi mai vista.
Può essere dunque che questa “nuova” Ineos non sia la squadra da battere, quest’anno? No, sorry. Con tutta probabilità sarà ancora The Empire il riferimento per la classifica generale. Da un punto di vista strettamente tattico, anzi, l’esclusione di Thomas e Froome sembra aver complessivamente rafforzato lo status di Bernal, che rimane il favorito principale della corsa. Con un anno (e una vittoria) in più, un percorso ideale per le sue caratteristiche e una leadership non in discussione (“Metteremo le nostre uova in un unico paniere, quello di Egan” ha dichiarato Rowe qualche giorno fa), soltanto un imprevisto e il mal di schiena (motivo del suo ritiro dal Giro del Delfinato) sembrano poter contrastare il giovane colombiano sulla strada verso il bis. Se poi qualcosa dovesse andare storto, gli inglesi potrebbero comunque contare su Carapaz, che ha ampiamente dimostrato di avere una certa abilità a sfruttare al meglio gli spazi che gli vengono concessi.
In questa prospettiva, è evidente che un Thomas e un Froome in forma precaria avrebbero rappresentato una zavorra o poco più. Certo, per il vecchio Chris avrebbe avuto un enorme valore simbolico il ritorno al Tour dopo l’orribile incidente dell’anno scorso, tuttavia in una compagine che in due anni è passata da promuovere la salvaguardia degli oceani a chiamarsi come uno dei mezzi di locomozione più inquinanti del pianeta non c’è troppo spazio per i sentimentalismi: in casa Ineos tutto – dagli sponsor commerciali alle selezioni tecniche – avviene in funzione dell’unica cosa che conta, come recita il motto della squadra di calcio che per mentalità più la ricorda: vincere. (Leonardo Piccione)
Rompere le uova nel paniere – Sì, la Jumbo-Visma è fortissima
Ok, non solo un imprevisto e il mal di schiena: tra Egan Bernal e la maglia gialla ci sono almeno altre otto maglie, anche queste gialle – e nere. Almeno otto perché (lo sapevate?) la Jumbo-Visma è l’unica squadra autorizzata a prendere il via da Nizza con la bellezza di dieci corridori in organico. Si tratta di: Bennett, Dumoulin, Gesink, Jansen, Kuss, Martin, Roglic, Wout, Van e Aert.
Sì: il fenomeno belga in questo 2020 vale per tre, ed è l’elemento che per versatilità e potenza contribuisce forse più di tutti a dare l’idea che il gap tra i nederlanesi e la Ineos sia finalmente prossimo al colmarsi. Difficile immaginare una coppia più assortita di quella composta dal suddetto Van Aert e dall’immarcescibile Tony Martin per tenere al sicuro i propri capitani nell’oceano di insidie che è un Tour de France. Esattamente come è difficile immaginare una batteria di gregari-scalatori più affidabile del trio Gesink-Bennett-Kuss, con gli ultimi due accreditati in particolare di uno stato di grazia paragonabile a quello lunare di Van Aert. L’infortunio alla spalla di Steven Kruijswijk ha invece ridotto a due i capitani per la classifica generale designati (già in dicembre) della Jumbo, che aveva programmato il suo assalto al Tour in maniera speculare rispetto agli avversari inglesi.
Così, l’annunciato e allitterante tridente contro tridente è forzatamente evoluto nelle ultime settimane in un meno pirotecnico ma non meno incerto uno contro due. I due principali sfidanti di Bernal sono Primož Roglič e Tom Dumoulin: corridori diversi, uomini diversi, vincitori in passato di corse diverse. In che modo potranno collaborare allo stesso obiettivo, questo è il nodo fondamentale del Tour della Jumbo. La serie di vittorie inanellate nel corso dell’avvicinamento alla corsa attribuisce allo sloveno il ruolo di leader iniziale, ed è verosimile che lo si ritrovi in maglia gialla già nel corso della prima settimana – ammesso che i postumi della caduta al Giro del Delfinato non pesino eccessivamente. Molto (le sue caratteristiche, lo stato di forma crescente, la maggiore esperienza nelle corse di tre settimane) lascia pensare che però col passare dei giorni le quotazioni di Dumoulin siano destinate a crescere esponenzialmente, e che Tom possa avere – in un anno in cui il percorso non lo favorisce particolarmente – una delle più grandi occasioni della sua carriera per arrivare a Parigi in giallo, senza nero. (Leonardo Piccione)
Tre per trenta – Gli sfidanti sono (quasi) tutti maturi
Dietro i capitani e i vice – o presunti tali – di cui si è detto, c’è Thibaut Pinot (Groupama). Ha trent’anni, il ricordo di un terzo posto finale che ormai è del 2014 e quello assai brutto del ritiro di un anno fa. Come ha scritto CyclingTips, è uno che per vincere questo Tour ha bisogno che «proprio tutto gli giri nel verso giusto». Il problema è che finora non gli è mai successo. Tuttavia il percorso gli si addice, la forma è buona – seppur non eccellente – e la squadra, con 36 partecipazioni al Tour sparse tra i suoi corridori è solida, anche se non profonda quanto questo percorso potrebbe richiedere.
La squadra più forte, tolte le due inarrivabili, quest’anno sembra averla Mikel Landa (Bahrain): anche lui trentenne, ma mai sul podio finale di Parigi. Oltre che forte, la Bahrain dà anche la sensazione di essere compatta: tutta per il basco. Il problema qui è che potreste averlo visto, in un recente documentario, sentenziare sconsolato e intrinsecamente landiano la frase «È da tempo che mi sono reso conto che forse non potrò collezionare molti titoli». In quel forse, nella sua squadra, nei pochi chilometri a cronometro e nelle tante tappe che sembrano adatte a lui, stanno le possibilità di Landa di vestire, e soprattutto conservare, la maglia gialla.
Il terzo trentenne è Nairo Quintana (Arkea), finalmente separato da Landa – e soprattutto dalla Movistar. Quest’anno era partito forte, Nairo, ma quest’anno è girato male in generale, e quando si è ripreso a correre è girata un po’ male anche a lui. È pienamente capitano della nuova squadra, ma di squadre più forti dell’Arkea ce ne sono tante. Troppe?
Un paragrafetto tutto suo in mezzo ai trentenni se lo merita Tadej Pogačar (UAE – Emirates), che di anni ne ha 21 e di Tour in carriera ne ha corsi zero. È un paragrafo per il momento corto, perché a suo favore lo sloveno ha tanto talento, un terzo posto alla Vuelta dell’anno scorso e un mucchio di cose che è davvero troppo presto per sapere. Meritano di certo una menzione, ma è difficile immaginarseli oltre quello che sarebbe un già notevole podio, Emanuel Buchmann (Bora), Enric Mas (Movistar), Miguel Ángel López (Astana), Guillaume Martin (Cofidis), Sergio Higuita e Daniel Martínez (EF), che ha vinto il Giro del Delfinato – ma che non è stato il più forte del Giro del Delfinato. (Gabriele Gargantini)
Poco familiare – Un percorso difficilissimo da interpretare
A guardare dall’alto questo Tour si vede che parte da Nizza, ci resta un po’ e poi scende verso sud-ovest, verso i Pirenei. Poi risale, ma non troppo, passa dal Massiccio Centrale e ritorna a Est, in direzione delle Alpi, non lontano da dove era stato nei suoi primi giorni. Una tappa sui Vosgi e infine, al solito, Parigi. A guardarlo di profilo si vedono poche tappe piatte e tante piuttosto ondulate, con solo 36 chilometri di cronometro individuale, buona parte dei quali in salita. Non si vedono monti noti – niente Ventoux, Alpe d’Huez o Tourmalet – ma ce ne sono comunque tanti. Il più atteso, anche perché inedito, è il Col de la Loze, la vetta più alta, dove terminerà la diciassettesima frazione. Gli Hors Catégorie sono quattro, i Prima categoria quindici.
Ha un aspetto poco familiare, questo Tour, e quando fu presentato a ottobre c’era indecisione nelle recensioni. Chris Froome ne parlò come del più duro degli ultimi cinque anni, «da vincere o da perdere in salita». Altri lo trovarono aperto a improvvisazioni e difficile da controllare, ma non così pieno di grandi montagne. Di sicuro è un percorso che non ammicca granché ai velocisti, che può ispirare gli attaccanti, che si presta a eventuali mosse-Kansas-City e che dovrebbe dare un gran lavoro da fare a di chi volesse controllare la corsa.
Tra le tappe nizzarde, la più dura è la seconda con quattro colli da scalare. Alla quarta tappa c’è il primo arrivo in salita, che ai tempi fu sede di un celebre duello Ocaña-Merckx.. Difficilmente già i Pirenei potranno chiudere il Tour, o anche solo socchiuderlo. Magari potrebbe fare più danni la decima tappa, pianeggiante ma atlantica: da un’isola all’altra, con tanta costa e forse tanto vento (e di certo notevolissimi paesaggi). La tredicesima tappa è tutta su e giù per il Massiccio Centrale, con oltre quattromila metri di dislivello e senza più di qualche centinaio di metri consecutivi pianeggianti. La quindicesima è una delle più dure e possibilmente decisive con l’arrivo sul Grand Colombier. Ma l’etichetta di tappa regina dovrebbe essere appannaggio della diciassettesima, dal finale ripido e insidioso sul già citato Col de la Loze. La diciottesima, con 5 GPM in 175 chilometri, è quella da tutto per tutto per chi dovesse averne. La ventesima, a cronometro e con arrivo sulla Planche des Belles Filles, è quello di cui sarebbe bello poter dire, tra qualche anno, che fu “quella in cui si decise quello strano bellissimo Tour”. (Gabriele Gargantini)
L’arte del fuoco – Cacciatori di tappe e velocisti
Mancherà il quattordici luglio in questo Tour, ma non tutte le tradizioni della festa nazionale francese andranno perse: troveremo ancora le bandiere per le strade e non mancheranno gli spettacoli pirotecnici, almeno quelli a due ruote. In fondo, tra una buona fuga e la pirotecnia non c’è grande differenza: “I fuochi marciano nel tempo del silenzio”, come i corridori inseguiti dal gruppo, con i loro sogni di gloria, spesso costretti ad arrendersi all’ordine costituito. In molti si candidano a interpretare, anche quest’anno, quest’antica arte. L’elenco dei baroudeurs, i casinisti, gli artificieri è lungo e nutrito: pochi di loro se la sono sentita di dire no a questo irripetibile ricciolo ciclistico autunnale. Fuoco alle polveri, dunque.
Il quadro di apertura è rappresentato dai belgi, razzi di grande effetto e prestigio. Tra Philippe Gilbert, Thomas De Gent, Dylan Teuns e Tiesj Benoot le variabili sono impressionanti: fughe a lunga gittata, scatti in salita, scappatelle nel vento… È vasto il catalogo delle situazioni in cui possono tenere ben alto il loro pennacchio e inchiodare gli altri a fissarlo.
La parte centrale, o palleggiata, come direbbe qualche mastro fuochista di lungo corso, è più internazionale: si va da Matteo Trentin, uno che di fughe in terra di Francia sembra non averne mai abbastanza, al suo compagno Greg Van Avermaet, al coriaceo Michael Valgren. Non si può dimenticare, poi, un trio di grimpeur d’oltralpe prontissimi a tentare il colpaccio in alta quota, con un occhio al traguardo di giornata e uno alla maglia a pois: Pierre Rolland, Warren Barguil e Romain Bardet, per una volta senza ambizioni di classifica, almeno a detta sua.
Tutti gli occhi, a questo punto, sono per la “strenta”, il momento più atteso, la sparata finale. I giochi più arditi non possono che aprirsi coi colori dell’arcobaleno di Mads Pedersen: il campione del mondo è intenzionato a godersi ogni secondo iridato, e il Tour è la sua grande occasione. Stesso discorso per Wout van Aert, dominatore della “primavera” italiana, che cerca il riscatto dopo l’infortunio della scorsa edizione e tiene d’occhio la maglia verde (per la quale, indovinate un po’, il favorito è ancora una volta Peter Sagan). L’ultima cartuccia, come sempre, è un tripudio di colpi e sfumature: non è facile stabilire la tonalità di Julian Alaphilippe anche se, di solito, il suo botto è bello grande. Dopo i numeri caleidoscopici del 2019 non si sa bene cosa aspettarsi da questo corridore, affascinante proprio perché incerto, ignoto fino all’ultimo. Fughe? Maglia a pois? Classifica generale?
I velocisti, predatori naturali dei fuggitivi, dovranno gettare molta acqua sul fuoco per potersi giocare le proprie chance. Quest’anno la loro rappresentanza è in tono minore rispetto al solito, ma egualmente agguerrita. Oltre a Peter Sagan, Elia Viviani e Caleb Ewan sono in attesa di riprendere il discorso da dove l’avevano interrotto un anno fa: il bilancio 2019 è stato di tre vittorie per l’australiano tascabile, una a testa per gli altri due. Non avranno vita facile, considerando soprattutto l’esuberanza di Sam Bennett e lo stato di forma di Giacomo Nizzolo, fresco campione italiano ed europeo. Fuochi d’artificio contro uomini razzo, resta da stabilire chi spegnerà chi. (Michele Polletta)
L’incomodo fantasma – Il Tour arriverà a Parigi?
Tra i possibili protagonisti di questo Tour c’è spazio anche per un fantasma che si aggira per il peloton: è la star del 2020, si chiama CoVid-19. Perché la Grande Boucle parte, ma il virus circola ancora, in Francia i numeri restano importanti (nell’ultima settimana la media è di quattromila nuovi casi al giorno), tanto che ci si dovrà abituare allo spettrale spettacolo di una corsa senza spettatori, senza interviste e conferenze stampa, con tanti giornalisti che racconteranno la gara da casa propria. Ma non finisce qui…
Il ciclismo, come tanti altri sport professionistici, ha una lunga tradizione di positività. Nel ciclismo – e solo nel ciclismo – queste positività però hanno sempre goduto di una visibilità unica: gendarmi, perquisizioni e arresti in corsa sono parte integrante della storia del Tour di questo inizio millennio. A questo giro si parlerà di positività diverse, ma i cui effetti potrebbero finire per essere ancora più dirompenti.
La scorsa settimana tutte le squadre hanno ricevuto un protocollo con le istruzioni da seguire riguardo all’emergenza sanitaria. Cosa dice questo protocollo? Che le squadre possono essere composte al massimo da 30 persone tra corridori e personale (ciclisti, direttori sportivi, massaggiatori, meccanici, autisti, medici, cuochi, addetti stampa…) e che nel caso in cui due di esse risultino positive a un tampone, o presentino “sintomi fortemente sospetti”, la formazione sarà esclusa dalla corsa. Si tratta di una misura particolarmente stringente: nel campionato di calcio, ad esempio, il numero di coinvolti deve essere di quattro persone. A vigilare su tutto ciò sarà una commissione medica composta da 16 tecnici che valuterà singolarmente ogni caso. Come ha sintetizzato Frédéric Adam, addetto stampa della B&B Hotels, “fino al 20 settembre terremo tutti le chiappe strette”.
Per essere sicuri di non vanificare il proprio lavoro, infatti, non basterà difendere la bolla in cui si muoverà il personale di ogni squadra ma si dovrà sperare che i risultati delle analisi siano affidabili. Nelle ultime settimane si sono già registrati quattro casi di “falsi positivi”, e in una corsa che prevede oltre 2600 tamponi totali (senza controanalisi) rischia di pesare parecchio l’efficacia di un test che comporta una percentuale di errore intorno al 2%. Come saranno gestite le eventuali positività dei capitani, e cosa ne sarà della corsa in quel caso? Chi vincerebbe il Tour se non si riuscisse ad arrivare a Parigi? A pensarci bene, non sarebbe nemmeno una novità clamorosa: al Tour è già accaduto di dover ricomporre la classifica dopo che le frane ne hanno amputato le tappe conclusive. È successo giusto un anno fa. La speranza è che questa volta le bolle siano una difesa sufficiente per l’integrità della corsa, perché da una gara ciclistica non si trasformi in una grande sfida a Bubble Bubble. (Filippo Cauz)
Potevamo concludere senza un giro di pronostici? No.
– Chi vincerà il Tour de France 2020?
FC: Uno che la scorsa stagione correva nella Movistar.
LP: Se ha ancora dita da incrociare, Thibaut Pinot.
GG: Primož Roglič (ma Pavel Sivakov sarà la sorpresa).
MP: Thibaut Pinot.
– Chi sarà la delusione?
FC: Con la morte nel cuore dico Elia Viviani.
LP: Peter Sagan.
GG: Richard Carapaz.
MP: Miguel Ángel López.
– Chi vincerà più tappe?
FC: Caleb Ewan.
LP: Ventuno vincitori di tappa diversi (lo dico ogni anno ma non succede mai).
GG: Julian Alaphilippe.
MP: Wout van Aert farà strage di tappe.
– Quale sarà la tappa decisiva?
FC: La penultima.
LP: La decima, quella dei ventagli.
GG: La diciassettesima, Grenoble – Méribel / Col de la Loze.
MP: I grandi arrivi in salita, Grand Colombier (tappa 15) e Col de la Loze (tappa 17).
– Dove terminerà il Tour de France 2020?
FC: In una località turistica tra la Savoia e l’Isère.
LP: A Reykjavík, l’unica capitale europea praticabile il 20 settembre (è un egoistico auspicio: vorrà dire che il Tour sarà comunque arrivato alla fine, e che io potrò vedermi l’ultima tappa).
GG: Sugli Champs-Élysées, a Parigi.
MP: A Parigi, voglio chiudere fiducioso.