Tornare allo stadio e stare in silenzio può essere una soluzione?

In base a quanto sta succedendo in Giappone, sembrerebbe di sì.

Il Giappone ha affrontato la pandemia con un approccio molto diverso da quello dei Paesi europei o occidentali: certo, il numero dei contagi non è mai andato fuori controllo – come per esempio negli Stati Uniti – e quindi non è stato varato un vero e proprio lockdown di tutte le attività economiche. Certo, anche i giapponesi hanno dovuto cambiare tutte le loro abitudini: il governo di Tokyo ha infatti ridotto al minimo i grandi raduni pubblici, gli eventi con oltre 5mila persone restano proibiti e lo saranno almeno fino al termine di settembre. Quindi è cambiato il modo di vivere lo sport, da parte di tifosi e appassionati: gli stadi sono aperti al pubblico, ma con capienza ridotta e con regole di distanziamento sociale molto stringenti, come ha spiegato il New York Times in questo reportage, in cui viene raccontata l’esperienza di assistere a una gara di J-League nello stadio dell’FC Tokyo.

Le persone sono tornate sugli spalti degli stadi giapponesi dall’inizio di luglio, ma hanno dovuto cambiare radicalmente il loro approccio al tifo: «Normalmente, le gradinate nipponiche non sono solo estremamente rumorose, ma anche organizzate: durante la partita, i cori e gli applausi e i suoni dei tamburi sono praticamente ininterrotti, al punto che lo spettacolo sugli spalti spesso rivaleggia con il gioco per valore dell’intrattenimento. Ora la maggior parte di queste attività è vietata, il suono più ricorrente è quello degli involucri di plastica aperti per mangiare. Del resto tra uno spettatore e l’altro ci sono almeno quattro posti vuoti, neanche i membri di una stessa famiglia possono sedersi vicino: tutto può diventare un vettore per la diffusione del virus, quindi è meglio non rischiare». Il silenzio, dunque, è il suono degli stadi nell’era del Coronavirus. Anche quelli semi-pieni, non solo quelli vuoti – come siamo ormai abituati a vederli in Italia e in Europa.

«Al massimo», si legge sul New York Times, «i tifosi giapponesi applaudono in maniera spontanea, nel senso che certe volte l’applauso sembra davvero incontenibile, per esempio dopo un gol o una grande parata. Come se la partita fosse un concerto sinfonico, e il pubblico applaude al termine di una grande esecuzione». Prima non erano concessi neanche gli applausi, poi però i dirigenti nipponici si sono accorti che era impossibile evitarli: Kei Takahashi, direttore amministrativo dell’FC Tokyo, ha detto che «le regole che proibivano battere le mani sono state allentate, ora è possibile farlo anche perché è dimostrato che non comporta ulteriore eccitazione, per esempio non porta i tifosi ad alzare la voce per sostenere la propria squadra».

La limitazione delle urla di supporto è un punto fondamentale. E infatti si tratta di «una richiesta espressa delle autorità giapponesi: si chiede alle persone di non parlare, anche di non conversar sui mezzi pubblici,in modo da ridurre le possibilità di contagio tramite droplet». Letteralmente, droplet significa “goccioline”; in campo epidemico il termine si riferisce alla saliva nebulizzata potenzialmente infetta. Lo stadio silenzioso sembrerebbe essere una soluzione, almeno è una possibilità: nel reportage del NYT, è riportata l’opinione di un tifoso dell’FC Tokyo che spiega di sentirsi «più sicuro allo stadio che al bar o al ristorante»; una sensazione confermata anche da un medico, il dottor Kentaro Iwata, specialista in malattie infettive presso il Kobe University Hospital: «Un luogo all’aperto come uno stadio risulta relativamente sicuro, il viaggio su treni o autobus verso i grandi eventi, o i momenti in cui i fan senza maschera parlano tra loro, potrebbero comportare rischi maggiori». Anche se sembra uno scenario da mondo distopico e/o parallelo, lo stadio silenzioso si staglia all’orizzonte come un’opzione da tenere in considerazione.

L’edizione 2020 della J-League è iniziata a febbraio 2020, ma è stata sospesa per la pandemia. La squadra detentrice del titolo è lo Yokohama F. Marinos, ora in testa c’è il Kawasaki Frontale (Foto tratte dalla pagina Facebook della J-League)

Il protocollo, ovviamente, non si ferma qui: come detto c’è grande distanziamento tra le persone ammesse; tutti indossano la mascherina; prima di entrare nei vari settori ci sono i termometri per controllare la temperatura di chi entra allo stadio; non sono ammessi tifosi in trasferta; agli acquirenti di biglietti viene chiesto di inviare i loro nomi e le informazioni di contatto in modo che i tracciatori dei contatti potessero rintracciarli se ci fosse stato un caso di Coronavirus allo stadio. Questi regolamenti sono stati messi a punto da Shoji Fujimura, direttore generale del J-league’s coronavirus response office: «Sventolare una bandiera o suonare un tamburo può eccitare le persone, può generare entusiasmo e quindi può portare i tifosi ad alzare la voce. E in questo momento non possiamo permettercelo».