Hauge, Ilicic, Kutuzov e i colpi di fulmine

Storie realmente accadute di calciatori acquistati dopo una buona partita, proprio dagli avversari di quella partita.

Capita ancora oggi, ai tempi di Wyscout, quando chiunque può vedere qualunque partita di calcio giocata sul pianeta o quasi, che un incontro casuale, deciso da mani che spostano palline in Svizzera, cambi il destino. Jens Petter Hauge non era sconosciuto agli osservatori del Milan, come a quelli di altre decine di società, anche perché il secondo miglior marcatore del campionato norvegese non può restare nascosto a lungo. Il suo arrivo, però, ha qualcosa di fortuito: il gol segnato a San Siro, i complimenti di Pioli nel post-partita, il corteggiamento insistito ne fanno il più classico dei souvenir.

I primi turni di Europa League (e, ai tempi, di Coppa Uefa) sembrano essere particolarmente adatti per portarsi a casa qualcuno: sarà per il periodo dell’anno, con il calciomercato in genere ancora aperto e le rose da completare, o forse per il tipo di avversari che si possono incrociare, botteghe di periferia dove poter comprare qualcosa di diverso dal solito, a poco prezzo e in poco tempo. Fino a qualche decennio fa, l’esotismo di certe squadre doveva essere abbagliante. Quando, nell’ottobre del 1987, l’Inter deve affrontare il Turun Palloseura al secondo turno di Coppa Uefa, le idee sui finlandesi sono piuttosto vaghe. I giornali li descrivono come una banda di pompieri, postini, studenti e militari. Trapattoni, convinto che «ormai gli unici materassi del pallone si trovano a Malta e in Lussemburgo», solo all’ultimo momento, dopo alcun tentativi finlandesi di depistaggio, entra in possesso dei filmati e può dare il suo giudizio: «I giocatori sembrano tutte fotocopie: assomigliano agli svedesi, ma non ne hanno l’esperienza». Tra tante copie, però, emerge la figura di Mika Aaltonen, che trova l’unico gol della gara d’andata a San Siro, battendo Zenga dalla distanza: a fine partita, mentre il Turun celebra con un giro d’onore, applaudito dal pubblico, e i giornalisti finlandesi si abbracciano, la caccia per acquistare lo studente universitario di economia è già partita. Il ragazzo ha offerte da Goteborg, Admira Wacker e Schalke 04 e dopo la partita di ritorno si fa sotto la Lazio, allora in Serie B: il direttore sportivo Carlo Regalia, dopo aver assistito dal vivo a entrambi gli incontri, invita a colazione Aaltonen e il compagno di squadra Kim Suominen.

A spuntarla, due giorni dopo aver ribaltato il risultato in Finlandia, è l’Inter: il ds Beltrami parcheggia il giocatore al Bellinzona e, un anno più tardi, lo porta in Serie A, convincendo il Bologna, dopo una lunga opera di persuasione, a uno scambio di prestiti con Romano Galvani, in quella che, più che un’operazione di mercato, secondo Gigi Maifredi è «un esperimento concordato con l’Inter». A Bologna scende in campo tre volte in campionato, per un totale di quarantacinque minuti, segna un gol al Ferencvaros in Mitropa Cup e frequenta la facoltà di filosofia, sostenendo quattro esami; a febbraio, l’Inter lo riprende per una sera per un’amichevole a Monza contro l’Unione Sovietica, unica sua apparizione con la maglia nerazzurra. Oggi è uno stimato professore di economia.

Le cose, da allora, sono cambiate: nessuno ammetterebbe di aver comprato un giocatore appena visto per la prima volta. Walter Sabatini, per esempio, ha sempre attribuito il merito dell’acquisto di Josip Ilicic a Dario Rossi, figlio di Delio, che avrebbe visionato di persona il calciatore, rimanendone entusiasta, ma non c’è dubbio che il playoff di Europa League tra Palermo e Maribor, nell’agosto del 2010, abbia dato una grossa mano. Il giorno successivo alla gara di andata, non accontenandosi dei tre gol di vantaggio accumulati sugli sloveni, il Palermo ha infatti già concluso per il trequartista e per Armin Bacinovic: tre milioni di euro al club, contratto quinquennale per i due. Unico dettaglio: si deve ancora giocare il ritorno, in vista del quale Ilicic e Bacinovic vengono peraltro inviati in conferenza stampa, ad assicurare a tutti di voler vincere e passare il turno. Lo stesso Delio Rossi considera i due «solo dei giocatori del Maribor», come se non stesse accadendo nulla, ma sorride alla domanda di un giornalista: schiererebbe, in una finale di Champions League, due giocatori in procinto di passare agli avversari? «Dipende dai calciatori, se li ritenessi al di sopra di qualunque condizionamento psicologico li manderei in campo».

L’unico condizionamento, sotto gli occhi di Pietro Grasso e degli altri 12200 del Ljudski vrt, arriva dopo che Ilicic segna il gol del 2-0, rimettendo in gioco la qualificazione: «Non ho provato una bella sensazione, sapendo di aver fatto gol alla mia nuova squadra. I miei ormai ex compagni mi hanno circondato per tranquillizzarmi, sapendo che non era facile per me esultare». Due giorni dopo, a bordo dell’aereo privato di Zamparini, i due arrivano a Palermo; a dicembre gli ex Maribor diventano tre con l’arrivo di Sinisa Andelkovic, autore delll’inutile 3-2 in Slovenia. Oggi uno gioca in Champions League, uno in Serie C al Padova (Andelkovic) e il terzo è senza contratto.

Tre stagioni al Palermo per Ilicic, con 107 presenze in competizioni ufficiali e 25 gol realizzati (Tullio M. Puglia/Getty Images)

Acquistare chi segna contro la propria squadra: quasi un’ossessione, per il Milan degli anni novanta. Da Milanello passano Savicevic, Papin, Kluivert, tutti a segno contro i rossoneri in Coppa Campioni/Champions League, ma anche Christophe Dugarry, acquistato dal Bordeaux come controfigura di Weah dopo che, con una doppietta al Parc Lescure, ha ribaltato il 2-0 dell’andata in un quarto di finale di Coppa Uefa. Una mossa di mercato, questa, che resta impressa nella memoria di Silvio Berlusconi, che a più di un decennio di distanza ricorda, come unico rimpianto da presidente, quello dell’acquisto del centravanti e non del suo compagno di squadra, nonché socio nella gestione di un bar, Zinédine Zidane.

Il culmine di questa strategia è raggiunto in occasione di Milan-Goteborg 4-2, Champions League 1996-97: i rossoneri di Tabarez, in crisi, vincono, ma quei due gol subiti da Jesper Blomqvist e Andreas Andersson nel giro di cinque minuti non resteranno impuniti. Su Blomqvist, esterno sinistro offensivo di ventidue anni, c’è da tempo l’interesse di Parma, Roma e Sampdoria, così come del Barcellona, che ha già un accordo con il Goteborg: Ariedo Braida deve muoversi in fretta e in una decina di giorni l’affare è fatto, alla cifra di quattro miliardi e mezzo di lire, anche grazie alle pressioni del giocatore, che dopo aver concluso la fase a gironi del torneo si concede dieci giorni di vacanza e ai primi di dicembre è già a disposizione: accolto a Linate soltanto da un’auto condotta da un assistente di Oscar Damiani, nel giro di quattro giorni lo studente di ingegneria dalle orecchie a sventola viene presentato ufficialmente («sono abbastanza rapido e ho un cattivo piede destro») e lanciato in campo contro l’Udinese, prendendosi i complimenti di Berlusconi («esordio ideale, ha fatto cinque cose belle, tutte diverse»). Già a inizio gennaio, però, capisce che qualcosa non va («non pensavo mai di trovarmi in un casino del genere, speriamo di uscirne presto»). A febbraio segna contro il Bologna il suo unico gol con il Milan, destinato a restare nella storia non per merito suo, ma grazie all’azione personale di Weah. Se ne va a settembre, in prestito al Parma, senza sapere che nel suo futuro c’è una finale di Champions League da titolare con la maglia del Manchester United, ma non prima di aver ritrovato Andersson, anche lui capitato a Milanello nel momento sbagliato: i compagni, di nascosto, lo chiamano renna, e la società, per mesi, non riesce a trovargli un insegnante per le lezioni di italiano. Segna anche lui un gol, forse per chiudere per sempre ogni conto aperto in quel Milan-Goteborg, contro l’Empoli: «non è stato un gol facile, ho dovuto anticipare un difensore». A gennaio del 1998, dopo appena sei mesi, parte per Newcastle.

Dopo le esperienze negative con Parma e Milan, Blomqvist gioca per tre anni nel Manchester United e vince sei trofei: tre di questi compongono il Treble del 1999, Premier League, FA Cup e Champions League (Stu Forster/Allsport)

Fa parte della storia del Milan anche uno dei colpi di fulmine più celebri di tutti i tempi, quello che porta Vitali Kutuzov in Italia. Settembre 2001: sei stagioni dopo quella doppietta di Dugarry, il Milan ritrova la Coppa Uefa. La prima è a Minsk, contro il BATE Borisov, club bielorusso allora emergente, che ha fatto il suo esordio assoluto in Europa due anni prima, con un giovane Alexander Hleb, ed è ancora una novità per il grande pubblico: per Martin Laursen si tratta di «una formazione praticamente sconosciuta», di cui il Milan si è fatto un’idea grazie a quella che Fatih Terim definisce «una cassetta difettosa, di pessima qualità». Kutuzov è citato dai giornali come l’elemento di spicco della rosa, ma nessuno immagina quello che sta per accadere. Il giovane talento bielorusso, che negli ultimi tempi ha respinto offerte da personaggi di dubbia provenienza, è stato già visionato, per il Milan, da Andrea Valdinoci, che lo ha ammirato nell’Under 21 bielorussa, e tutte le relazioni giunte in via Turati sono positive. La concorrenza, però, è ovunque: il Siena lo segue da tempo, ha già ottenuto il permesso di soggiorno e intavolato una trattativa sulla base di 700 milioni di lire; Andriy Shevchenko, che è in campo e segna il gol dell’1-0, ha parlato bene di lui non tanto al Milan, quanto alla Dinamo Kiev, dove è convinto possa crescere molto con l’aiuto di Lobanovski; Vincenzo D’Amico, presente allo stadio per commentare la partita su Rai Due, durante l’incontro stila, in qualità di osservatore della Lazio, una scheda favorevole all’acquisto.

Una volta in campo, Kutuzov stupisce lo stesso Inzaghi, che dalla panchina, parlando con alcuni compagni che lo hanno affrontano con l’Under 21, commenta positivamente i buoni mezzi tecnici dell’attaccante. La leggenda che l’acquisto sia stato suggellato nell’intervallo è esagerata, ma di certo è a partita in corso che si decide di agire: Galliani, che indossa una sciarpa del Bate, siede in tribuna di fianco a Terim, squalificato, e ne ottiene l’immediato assenso; a fine partita, con una stretta di mano da quattro miliardi di lire con il presidente Anatoliy Kapskiy, l’affare è fatto. Il figlio di Galliani è d’accordo. L’interprete di Kaladze e Shevchenko trova che il giocatore ricordi Rummenigge. Un dirigente rossonero sottolinea i movimenti alla Ciccio Graziani. Le visite mediche e la firma sul contratto da 550 milioni l’anno arrivano lunedì; giovedì, quando il Milan affronta un Bate privato non solo del suo giocatore più forte, ma anche di Rahozhkin, acquisto su cui ha ripiegato il Siena, il buon Vitali saluta gli ex compagni negli spogliatoi e si accomoda in tribuna per assistere al 4-0. L’esordio, sette minuti più recupero nel finale di un Milan-Perugia di Coppa Italia, arriva in un’occasione a suo modo storica, la prima partita di Ancelotti sulla panchina del Milan; seguiranno altre tre presenze, tutte da subentrato, con l’unico sussulto di un tocco filtrante per Inzaghi al 90′ di un Milan-Roma. Dopo un’onesta carriera tra Serie A e B, si è dedicato all’hockey su ghiaccio come portiere dei Diavoli Rossoneri prima e dell’UHC Barlafüs, che in suo onore ha organizzato anche la “Kutuzov Cup”.

Una delle prime esultanze di Cristiano Ronaldo con la maglia del Manchester United; in totale, il portoghese gioca per sei anni a Manchester e accumula 292 presenze in competizioni ufficiali con 118 gol segnati (Steve Parkin/AFP via Getty Images)

Essere al posto giusto nel momento giusto, insomma, aiuta. Il 6 agosto 2003 il Manchester United, atterrato ventiquattro ore prima da New York, reduce da una tournée di tre settimane negli Stati Uniti, è a Lisbona per inagurare il nuovo José Alvalade con un’amichevole. I giocatori non conoscono quella giovane ala di talento da cui li mette in guardia, senza nominarla, Alex Ferguson, ma Cristiano Ronaldo, pur diciassettenne, non è uno sconosciuto: se lo United è in Portogallo, anzi, è come parte di un accordo che dovrebbe concedere ai Red Devils il diritto di prelazione sui giocatori dello Sporting. Jorge Mendes sta provando a piazzare il giocatore un po’ ovunque: lo United segue con attenzione, anche su consiglio di Queiroz, ma mesi prima c’è stato un incontro, al centro d’allenamento dell’Arsenal, tra Arsène Wenger e Ronaldo, che ha poi dichiarato pubblicamente che sarebbe un sogno vestire la maglia del Liverpool. Proprio in quei giorni Phil Thompson, vice di Gerard Houllier, informato delle richieste del club e del giocatore, torna in Inghilterra per riferire all’allenatore.

Intanto, a Lisbona, Ronaldo fa impazzire John O’Shea, sfiatato e deriso durante la partita dai suoi stessi compagni in panchina: una prestazione attribuita dall’irlandese al jet-lag, che ha tenuto svegli i giocatori la notte precedente. Comunque sia, nella sua autobiografia Ferguson racconta di aver mandato il magazziniere a chiamare Peter Kenyon per intimare a quest’ultimo, nell’intervallo, di comprare il giocatore. A fine partita, negli spogliatoi, si parla solo di Ronaldo; Gary Neville chiede all’allenatore di comprarlo, Scholes, Butt e Ferdinand sono altrettanto entusiasti. Non c’è tempo da perdere: mentre la squadra, come una scolaresca annoiata alla fine di una gita, è costretta ad aspettare per più di un’ora sul pullman, i dirigenti, dentro lo stadio, trattano. Cinque giorni dopo, per 12,24 milioni di sterline, Cristiano Ronaldo è ufficialmente il nuovo numero 7 del Manchester United.