I giocatori-feticcio sono un limite per gli allenatori?

Alcune coppie sono inseparabili, e funzionano bene, ma possono diventare un problema per i club.

Quando Guardiola arrivò al Bayern nel 2013, aveva una sola richiesta di mercato: «Thiago Alcántara oder nichts», vale a dire “Thiago Alcántara oppure nessun altro” – è una cosa che racconta Martí Perarnau nel libro Herr Pep. È andata così e magari va sempre così, per certi allenatori, con certi giocatori: lui o niente. Del resto la ricostruzione dei rapporti tra alcuni tecnici e i loro calciatori-feticcio va proprio in questa direzione: fin da quando Antonio Conte è arrivato all’Inter, nell’estate 2019, si parla di Vidal in nerazzurro, e oggi effettivamente Vidal gioca nell’Inter; Marco Giampaolo è stato scelto per guidare il Torino e il Torino ha acquistato Linetty, Murru e Rodríguez, ex calciatori di Giampaolo alla Sampdoria e al Milan, e fino all’ultimo giorno di mercato i granata hanno trattato Gastón Ramírez, trequartista della Sampdoria; Carlo Ancelotti ha conosciuto James Rodríguez a Madrid, poi l’ha voluto con sé a Monaco di Baviera e oggi all’Everton, e nel mezzo pare ci sia stato anche un tentativo (fallito) di ricongiungimento a Napoli; in passato, Fabio Capello ha allenato Christian Panucci al Milan, al Real Madrid e alla Roma, Mourinho ha incontrato Ricardo Carvalho al Porto e poi l’ha voluto anche al Chelsea e al Real Madrid, mentre Walter Mazzarri ha lavorato con Hugo Campagnaro alla Sampdoria, al Napoli, all’Inter.

È evidente come questa tendenza vada oltre il tempo, gli stili di gioco, gli approcci emotivi, tantissimi allenatori hanno dei giocatori per cui stravedono, che vorrebbero sempre portare con sé, e molte volte riescono a farlo. Ma quali sono i pregi e i difetti di questa strategia? A volte, banalmente, il talento e la reciprocità emotiva bastano a spiegare, a giustificare, questa ripetuta insistenza: non è che Conte e Ancelotti siano gli unici esseri umani sulla terra a essersi innamorati del gioco di Vidal e di James, in realtà lo siamo tutti noi, più o meno; solo che però il sentimento di Conte e Ancelotti è perfettamente corrisposto, quindi il rapporto tra giocatore e allenatore diventa qualcosa di più profondo, di più duraturo. Un cocktail di empatia tattica e affettiva è all’origine di queste storie d’amore: alla Juventus, Vidal ha dimostrato di avere caratteristiche fisiche, tecniche e mentali che lo rendono un centrocampista perfetto per il calcio ad alta intensità di Conte, così come fin dai tempi di Madrid il sinistro ispirato di James è sembrato perfetto per creare connessioni offensive di alta qualità nel possesso verticale di Ancelotti. E così il giocatore si sente esaltato come elemento cardine del sistema, si sente esaltato dal sistema, nel sistema; è come se l’allenatore lo coccolasse, che poi in realtà è proprio così, perché grazie a certi atleti il sistema si esalta davvero e allora vale la pena avere un occhio di riguardo per loro, è una scelta che conviene a tutti, anche alla società, così è più semplice che arrivino i risultati.

Ed è proprio questo il fulcro su cui poggia il ragionamento: la conoscenza vicendevole e la prossimità emotiva e la fiducia sviluppate nel corso degli anni, delle esperienze condivise, alimentano il desiderio, per non dire il bisogno, di ritrovarsi. Vidal all’Inter, James Rodríguez all’Everton e altre operazioni migliorative di questo tipo hanno permesso – e permetteranno – a Conte, Ancelotti, agli allenatori in genere, di disegnare la squadra come piace a loro, di farlo in tempi più brevi, di avere a disposizione un calciatore molto forte che conosce già il modulo, i movimenti, le attribuzioni nelle varie fasi di gioco, che non deve essere istruito e quindi può aspirare fin da subito a diventare leader della squadra.

Vista e raccontata in questo modo, da questa prospettiva, l’idea dei “pacchetti completi” giocatore + allenatore sembra perfetta. Sempre perfetta. Come per ogni cosa del mondo, però, esistono anche dei risvolti negativi. Che non riguardano solo le differenze – di qualità, di caratteristiche – tra Vidal e Murru, tra James Rodríguez e Moses, tra Thiago Alcántara e De Sciglio, tra Jorginho e Hysaj, e qui il riferimento va ovviamente a Maurizio Sarri. È il concetto stesso di calciatore-feticcio a determinare qualche scompenso, soprattutto a livello strategico, manageriale.

Un allenatore che ha tanti giocatori “preferiti”, come nome ma anche guardando a determinate qualità tecnico-tattiche, finisce per limitare il mercato delle sue stesse società. Nella frase di Guardiola, «Thiago Alcántara oder nichts», c’è quel nichts che è molto netto, che restituisce una sensazione di chiusura, come se Guardiola del 2013 fosse convinto che il Bayern Monaco non era migliorabile con un giocatore diverso da Thiago, quando in realtà allora c’erano tanti centrocampisti tra i 20 e i 25 anni, magari con un gioco differente rispetto a quello dello spagnolo, che avrebbero potuto far comodo ai bavaresi in quello slot – due su tutti: Kevin De Bruyne, allora esule al Chelsea, e N’Golo Kanté, appena passato al Caen. Certo, gli scout del Bayern avrebbero dovuto scovare Kanté oppure pensare a De Bruyne, e poi avrebbero dovuto proporre i loro nomi a Guardiola, che a sua volta avrebbe dovuto cambiare i piani tattici che aveva in testa. Ma il punto è proprio questo: se le indicazioni dell’allenatore sono così stringenti, anche la semplice analisi delle opportunità di mercato diventa troppo circoscritta, quindi tendenzialmente inutile.

Nei tre anni vissuti con Antonio Conte a Torino, Arturo Vidal ha giocato 126 partite in competizioni ufficiali, e ha realizzato 40 gol (Marco Luzzani/Getty Images)

Se il mercato in entrata viene limitato ad alcuni nomi, e quindi finisce per esprimere una squadra con certe caratteristiche tattiche, immutabile se non per alcuni dettagli marginali, è inevitabile che ne risentano due aspetti strettamente collegati tra loro: la sperimentazione sul campo e la valorizzazione di altri calciatori. Un esempio con numeri e nomi alla mano: dal 2010 al 2013, gli anni vissuti da Mazzarri a Napoli, la società azzurra ha acquistato Emílson Cribari, Ignacio Fideleff, Federico Fernández, Miguel Ángel Britos, Alessandro Gamberini; al netto della loro qualità assoluta, nessuno di questi calciatori è stato utilizzato con continuità, infatti i titolari della linea arretrata a tre sono sempre stati Hugo Campagnaro, Paolo Cannavaro e Salvatore Aronica (altro calciatore con cui Mazzarri aveva lavorato alla Reggina).

Tra questi nuovi acquisti, solo uno di loro ha poi generato una plusvalenza: Federico Fernández, ceduto allo Swansea per 10 milioni nel 2014 – tra l’altro al termine di una stagione nel Napoli di Benítez, in cui ruotava come centrale della difesa a quattro. Dopo l’addio di Mazzarri, Campagnaro, Cannavaro e Aronica hanno lasciato la squadra alla scadenza del loro contratto oppure a costi irrisori, nel frattempo il mancato inserimento di alternative valide non ha permesso al Napoli di rientrare degli investimenti fatti per potenziare quel reparto della rosa. Partendo da un caso come questo, è evidente che la grande fiducia di un allenatore nei confronti di alcuni elementi, e solo in quelli, abbia fruttato ottimi risultati sul campo, ma alla fine si è rivelata limitante per le strategie a lungo termine della sua stessa società.

Hugo Campagnaro ha militato al Napoli dal 2009 al 2013: in quattro stagioni, ha accumulato 143 presenze e ha segnato quattro gol (Roberto Salomone/AFP via Getty Images)

È proprio questo il punto centrale della discussione, della disputa ideologica, e vale per tutti i giocatori-feticcio, da Vidal e James Rodríguez fino a elementi di qualità inferiore, per esempio Campagnaro e Cerci, che ha lavorato con Gian Piero Ventura a Pisa, Torino, Salerno: far acquistare e riutilizzare gli stessi giocatori nel corso degli anni preclude o comunque riduce la possibilità di scoprire i loro eredi, atleti che magari sarebbero o sarebbero stati ugualmente funzionali per un certo sistema tattico. Dieci mesi fa, Conte ha accettato che l’Inter cedesse in prestito il 23enne Lazaro e ha avallato l’arrivo, sempre in prestito, del 29enne Moses; un’operazione ripetuta quest’estate, Lazaro è stato ceduto in prestito ed è stato sostituito da un altro giocatore che Conte conosce bene, il 30enne Darmian. Ecco, magari Lazaro non è adatto al calcio dell’attuale allenatore dell’Inter e non lo sarà mai, ma resta il fatto che la società nerazzurra non è riuscita a verificare e/o valorizzare sul campo un investimento da 22 milioni di euro più bonus, e ha finito per “rifugiarsi” in due calciatori che hanno avuto e/o avranno un impatto solo qui e ora, solo sul campo, e comunque resteranno una voce passiva nel bilancio della società.

Da qui nasce un dilemma che esiste da sempre e che esisterà per sempre, soprattutto per i club-aziende del calcio contemporaneo: nella continua ricerca dell’equilibrio economico-sportivo, cosa privilegiare tra la ricerca del risultato immediato e la necessità di attuare una progettualità virtuosa? Non è possibile rispondere davvero a questa domanda, perché esistono tante risposte diverse, e ognuna discende dalla visione di ogni professionista, di ogni società. È tutta una questione di obiettivi, probabilmente: squadre di categoria inferiore che devono risalire la corrente hanno bisogno di immaginare e costruire vantaggi competitivi, magari attraverso una maggiore complessità nel gioco, quindi l’acquisto di giocatori funzionali alle idee tattiche di un allenatore può essere la scelta più giusta; i club medio-borghesi devono necessariamente valorizzare i propri calciatori per poter avere degli obiettivi ambiziosi, quindi un tecnico che ragiona e lavora senza una grande apertura nei confronti del mercato non è il tecnico giusto; le società più ricche e importanti magari hanno i fondi per poter sostenere una o due stagioni senza grossi introiti derivanti dalle cessioni, ma in ogni caso vivono all’interno di un certo contesto, di un universo sportivo e di mercato ipercompetitivo, per cui la staticità finanziaria non può essere una strategia funzionale sul lungo periodo. Ma anche queste categorizzazioni sono fluide e mutevoli, in fondo non esistono davvero, quindi il compito di ogni presidente e di ogni dirigente è proprio quello di scegliere dove collocarsi, quale direzione dare al proprio progetto, stagione dopo stagione, allenatore dopo allenatore, giocatore dopo giocatore, cercando di trovare ogni volta la ricetta giusta, la ricetta vincente.