L’azione che ha segnato indelebilmente la mia infanzia di tifoso di calcio non è un gol, né un assist, né una parata. È un fallo. Siamo nei minuti finali di un Juve-Milan dell’aprile 1995. La Juve vince 2-0. Per tutta i novanta minuti, Didier Deschamps ha tallonato Zvonimir Boban in lungo e in largo, dispensando strattoni e calcetti alle caviglie, spesso non sanzionati. Ora però è lui ad avere il possesso, mentre la partita si trascina verso un finale scontato.
Boban gli si avvicina da dietro, non visto, e lo falcia brutalmente, senza nemmeno guardare la palla. Deschamps va giù e comincia a divincolarsi e protestare. Boban si volta e s’incammina fuori dal campo. Non guarda nemmeno il cartellino rosso che l’arbitro ha estratto e gli sta sventolando alle spalle. Esce e basta. Il discorso sul calcio è sempre un discorso sulla giustizia. Ci sono i rigori giusti, i pareggi giusti, le ammonizioni giuste. Ma molto più spesso ci sono le scelte arbitrali sbagliate, su cui tifosi e commentatori si azzuffano per qualche giorno, prima che tutto finisca macinato dall’incedere inesorabile del calendario.
Sono pochi i momenti in cui la comune giustizia calcistica viene oscurata da eventi di una categoria giuridica superiore, che aprono uno squarcio sul significato delle cose. Penso alla Mano de Diós di Maradona che fa trionfare l’Argentina sull’Inghilterra, vendicando la guerra delle Falkland di quattro anni prima; alla testata di Zidane, che condanna la Francia alla sconfitta ma zittisce le offese di Materazzi. Mi piace classificare anche quell’espulsione di Boban tra questi eventi straordinari, un momento epifanico che fotografa un’intera carriera votata al farsi giustizia, anche quando ha significato sacrificare tutto.
Atto I – Rivolta
Pensi a Zorro, l’eroe mascherato, e lo immagini nel patio di una hacienda californiana, circondato da soldati dell’esercito messicano che lo attaccano da ogni lato. L’immagine per cui l’altro Zorro – Boban – è diventato immortale è simile per soggetto e composizione. È il 13 maggio 1990 e al Maksimir Stadium di Zagabria si svolge una partita tra la Stella Rossa di Belgrado e i padroni di casa della Dinamo. Boban ha ventun’anni ed è tra i pochissimi giocatori rimasti in campo dopo l’esplosione di una rissa che vede 5mila tifosi delle due squadre scontrarsi prima sugli spalti, poi sul terreno di gioco.
Quando nota che la polizia antisommossa jugoslava se la prende quasi esclusivamente con i tifosi croati, prende la rincorsa e sferra un calcio volante a un agente. Si crea un parapiglia. Viene portato via dai suoi mentre grida: “Dov’è la polizia? Dov’è cazzo è la polizia?”. Quel gesto è passato alla storia come il “calcio che cominciò la guerra” dei Balcani, un casus belli come lo sparo che uccise l’Arciduca Francesco Ferdinando. Poco più di un anno dopo, la Croazia avrebbe dichiarato l’indipendenza e diversi membri delle due tifoserie si sarebbero arruolati volontari nei rispettivi eserciti.
I disordini in occasione di Stella Rossa-Dinamo Zagabria, in un servizio del tg jugoslavo dell’epoca; il calcio di Boban al poliziotto arriva dopo il minuto 1.15
«Gesù dice di porgere l’altra guancia se qualcuno ti colpisce», commenterà Boban, «non ha detto cosa fare se qualcuno di colpisce su entrambe le guance». Non chiede scusa e ne subisce le conseguenze: viene denunciato, sospeso per sei mesi dalla Federazione Calcio Jugoslava e di conseguenza escluso dai Mondiali di Italia 90. Solo tre anni prima all’Estadio Nacional de Santiago, in Cile, era stato lui a portare in vantaggio la Jugoslavia nella finale dei Campionato Mondiali di Calcio Under 20 contro la Germania Ovest, avventandosi su una palla vagante e sparandola al volo di destro nell’angolo basso. E più tardi, dopo la fine dei supplementari, era stato sempre lui a segnare il rigore decisivo con un tiro rasoterra, non particolarmente forte ma molto preciso.
Atto II – Esilio
Nel 1991, Boban passa dalla Dinamo Zagabria al Milan per 10 miliardi di lire, su esplicita richiesta di Fabio Capello. Per questioni burocratiche viene subito girato in prestito al Bari, dove si distingue per piedi sopraffini e stomaco non avvezzo al pesce crudo: contrae l’epatite A dopo aver consumato un pasto a Bari vecchia ed è costretto a saltare mezza stagione.
L’anno successivo è quello del definitivo approdo in rossonero. A centrocampo ci sono ancora Albertini, Rijkaard, Donadoni e nuovi acquisti di lusso come Lentini, Eranio, Savicevic. Boban però non si fa intimidire. Con la riga in mezzo ai capelli e la maglia larga fuori dai pantaloni gioca ventidue partite e segna un delizioso gol su punizione nell’andata degli ottavi di finale di Coppa dei Campioni, contro lo Slovan Bratislava. È l’inizio di un cammino che nel decennio successivo lo porta a diventare una colonna del Milan, con cui vince una Champions League, tre Supercoppe italiane e quattro scudetti. L’ultimo, quello del 1999, lo vince giocando dietro le punte, una scelta che si racconta sia lui stesso a imporre a Zaccheroni durante un match contro la Fiorentina.
Segna 30 reti in nove stagioni, non moltissime per un centrocampista con tendenze offensive. Alcune però sono sopraffine, come questo doppio palleggio e sinistro nel sette contro il Lecce, questa incursione di forza nella difesa dell’Arsenal o questo gol di esterno destro in controtempo nel derby. In un’intervista recente, ricordando quel gol contro l’Inter, Boban l’ha attribuito alla capacità di “pensare molto velocemente”. Più che i gol e gli assist, forse quello che l’ha reso un giocatore indimenticabile è proprio l’abilità di leggere rapidamente le situazioni e agire di conseguenza, finendo spesso per fare quello che, più che temerario o imprevedibile, era semplicemente giusto.
Alto un metro e ottantacinque, con abilità non comuni di corsa, recupero, precisione e visione di gioco, è stato un prototipo del trequartista che miscela talento e grinta, piedi buoni e prestanza fisica, ruolo poi interpretato con maestria da Verón, Kakà, Gerrard, e declinato sul calcio di oggi da gente come Pogba e Milinkovic-Savic. Se vi mancano le sue finte, le sue aperture di prima, il suo incedere a testa alta con un’eleganza che si portava addosso come una croce, potete guardarvi tutti i palloni che ha toccato in un altro derby, quello del marzo 2000.
Atto III – Vendetta
“Darei la mia vita per la Croazia”, racconta Boban nel documentario The Last Yugoslavian Football Team del regista bosniaco Vuk Janic, “È la ragione principale per cui vivo. La amo come amo me stesso”. Noi italiani, nati nella certezza e talvolta nello sberleffo della patria, fatichiamo a capire fino in fondo il significato di una dichiarazione del genere. Ma per un adolescente cresciuto negli anni successivi alla morte di Tito a Imotski, uno sperduto paesino di confine nell’interno della Dalmazia, il concetto di nazione diventa un pilastro della tua identità, qualcosa che ti porti appresso per sempre.
Boban è capitano della Croazia che agli Europei del 1996 si ferma ai quarti di finale, battuta dalla Germania che poi sarà campione. Insieme a lui ci sono Šuker, Prosinečki, Jarni, Stanic. Lo stesso blocco va ai Mondiali francesi del 1998. Allo Stade de France, in semifinale contro i padroni di casa, Boban perde il pallone che consente a Thuram di pareggiare e poi vincere la partita, ma quella della Croazia è comunque un’impresa.
Per la giovane nazione balcanica, il terzo posto fa quel che decine di costituzioni e discorsi alla nazione non sarebbero mai riusciti ad ottenere: consolidare lo spirito di un popolo. Quando l’anno dopo, la nazionale va a giocare a Belgrado contro la Serbia e Montenegro, l’inno nazionale cantato dai giocatori croati viene ricoperto di fischi. «Glielo restituiremo a Zagabria», promette Boban, ma la diatriba è già stanca. Alla fine della stagione successiva, Boban si prende un’ovazione a San Siro mentre fa un giro di campo vestito da turista. Va in prestito al Celta Vigo, dove gioca poche partite prima di ritirarsi definitivamente. Non ha più niente da dimostrare a nessuno: la vendetta è consumata, giustizia è fatta.
Epilogo
Nell’epilogo del romanzo Zorro di Isabel Allende – una sorta di prequel biografico a tutto quello che la letteratura e il cinema abbiano mai prodotto sul personaggio – l’eroe mascherato torna in California dopo anni di addestramento e peripezie in Spagna. Qui libera il padre ingiustamente imprigionato e può tornare a essere Don Diego de la Vega, un ricco gentiluomo.
Dopo aver smesso di giocare, anche Boban ha fatto tutto quello che si addice a un ricco calciatore in pensione: ha aperto un ristorante di cucina italiana nel centro di Zagabria, ha giocato a tennis con l’amico Goran Ivanisevic, e ha cresciuto quattro figli adottivi e uno biologico con la moglie Leonarda. Si è anche laureato in Storia presso l’Università di Zagabria, con una tesi dal titolo: “La cristianità nell’Impero Romano”. Dopo averla discussa si racconta che abbia dichiarato: «Mi sono bastati quattro anni di studio per capire che non so quasi nulla».
Questa saggezza socratica però non deve trarre in inganno. Chi una volta è stato Zorro, non può semplicemente togliersi la maschera e diventare un borghese qualsiasi. Così Boban è tornato presto a mettere ordine, vendicare torti, anche se fuori dal rettangolo di gioco. Ha cominciato a scrivere e fare il commentatore televisivo in Croazia e in Italia, dispensando critiche e zittendo gli interlocutori in modo composto ma lapidario, senza risparmiare nessuno, come in questo collegamento in cui chiude una discussione con Conte dicendo: «Non hai ragione. Ho ragione io», e non si può che dargli retta dato che il tema della discussione è il gol fantasma di Muntari.
Alla cerimonia di consegna del Pallone d’Oro 2018 era vicepresidente della FIFA e si è commosso ascoltando Modric che lo ringraziava in croato. Il resto è storia recente: il ritorno al Milan, il sodalizio con Maldini, i dissidi con la proprietà riguardo agli accordi sottobanco con Rangnick, il licenziamento, la causa intentata contro la società. L’intervista di marzo 2020 in cui ha sparato a zero su Gazidis, conoscendo perfettamente la punizione che lo aspettava, è stato un gesto estremo ma in fondo assolutamente coerente con la sua storia. E il fatto che l’allenatore tedesco non sia mai arrivato sulla panchina rossonera non fa che amplificarne il significato. È una questione di principio. Chi non lo capisce, non conosce Zorro. Chi lo giudica, non sa cos’è la giustizia.