Le strade dell’Africa, dal Mali fino all’Etiopia, dal centro del continente fino alla sua punta meridionale, sono piene di maglie da calcio europee. Sono un elemento distintivo delle città e dei paesi più piccoli, nella vita comune e non solo sui campi da gioco. Champions League Koulikoro, il progetto del fotografo franco-maliano Emile-Samory Fofana, vuole mappare questo processo di “jerseyfication” a Bamako, la capitale del Mali.
Ⓤ: Come è iniziato il progetto Champions League Koulikoro, e qual è il tuo legame con il calcio, l’Africa e l’Europa?
Mi chiamo Emile-Samory Fofana, sono nato nel 1996 vicino a Parigi in una famiglia franco-maliana. Quando sono andato in Mali per la prima volta avevo un anno. Ho viaggiato soltanto con mia madre, perché all’epoca mio padre era senza documenti e non poteva lasciare la Francia. E più viaggiavo tra la Francia e il Mali, più vedevo maglie da calcio nelle strade. Ho iniziato il progetto Champions League Koulikoro per documentare questo processo di “jerseyfication” a Korofina, il mio quartiere a Bamako, e mi sono poi allargato alle aree vicine, tra cui Koulikoro Road. Il calcio è un ponte tra i miei due continenti, ed è uno degli argomenti di conversazione più frequenti nella mia famiglia, ovunque mi trovi.
Ⓤ: Le tue foto mostrano un’estetica molto maschile: una sorta di fratellanza unita da questo amore per il calcio. Come la descriveresti?
Il progetto Champions League Koulikoro vuole mostrare uomini di tutte le età, che giochino a calcio o che indossino semplicemente delle maglie da calcio. È sicuramente un progetto molto maschile, anche perché al centro c’è un indumento indossato da uomini in un ambiente in cui si trovano a loro agio e al sicuro: lo spazio pubblico. Ma l’obiettivo non era di mostrare un’immagine mascolina del calcio, anzi piuttosto di metterla in discussione, e riflettere sul ruolo che il calcio ha nel processo di crescere come uomo, come uomo nero, come uomo nero e musulmano, come uomo nero e musulmano e africano. Per milioni di persone il calcio è l’unica speranza di avere qualcosa nella vita. Riempie il loro tempo, le loro teste. È un obiettivo e un traguardo. È un’impalcatura per la vita, come la famiglia o la religione. Aiuta molti giovani africani con la loro salute mentale, anche: è importante riconoscere questo ruolo medico del calcio. E questi benefici dovrebbero essere allargati a tutti i sessi, i generi e le classi sociali. Questo sport è un megafono per ogni lotta, per ogni movimento: dovremmo incoraggiare e supportare un calcio anticoloniale, femminista, Lgbtq+, e intersezionale.
Ⓤ: La diffusione delle maglie europee in Africa – tu parli del Mali, ma è una cosa che ho notato anche, viaggiando, in Sudafrica e in Etiopia – è, in un certo senso, il segno di una colonizzazione “soft” che ancora esiste. Il tuo lavoro è soltanto estetico o ha anche una dimensione politica?
Grazie per aver usato la parola colonizzazione: il calcio è strettamente legato alla storia coloniale. Algeria e Nigeria sono esempi famosi di questo legame, rispettivamente con il Front de libération nationale in Algeria e lo Zik’s Athletic Club in Nigeria. È successo anche in altri continenti dove il rapporto di dominio dei bianchi sui neri è chiaramente rappresentato nel calcio, come in Brasile. Nel calcio si ripetono gli stessi pattern sociali, economici, politici e culturali che dominano il mondo. Per questa ragione, allo stesso livello, un giocatore francese costa solitamente più di uno maliano. Sadio Mané, Hakim Ziyech, Nicolas Pépé, Moussa Djenepo o Riyad Mahrez sono soltanto alcuni esempi di come ci siano calciatori africani validi tanto quanto i loro corrispettivi sudamericani in termini di tecnica, dribbling, e visione di gioco. Com’è poi possibile che l’Italia abbia sempre avuto allenatori italiani, la Francia francesi, mentre le Nazionali africane sono spesso guidate da allenatori europei? Ci mancano modelli, e non solo in campo: anche nei media, negli staff tecnici, tra i presidenti, i team manager, gli azionisti. Questi pattern devono essere decostruiti. Decolonizzati.
Ⓤ: C’è una specie di codice nella scelta di alcune maglie anziché altre?
I miei criteri di selezione sono semplici: le maglie devono essere di club, e non di Nazionali. I club devono aver giocato in Champions League. Quello che mi interessa è il confronto tra l’élite del calcio europeo e i suoi tifosi africani. Un altro criterio è la rarità della maglia. Tra tutti i Cristiano, i Messi e i Neymar, a volte mi imbatto in una pepita: Juninho, Seedorf, Gourcuff, Figo… È bello vedere un ragazzino con la maglia di un giocatore che non è mai riuscito a vedere per questioni di età.
Ⓤ: Una delle cose che più colpisce nel tuo lavoro è il sovvertimento del cliché del calcio in Africa, fatto di povertà, palloni di stracci, e sentimenti pietosi. Invece CLK mostra un senso di felicità, orgoglio e competizione.
L’Africa, vista dall’Europa, viene percepita come un continente debole, disperato. Io sono africano, sono maliano. Il mio approccio artistico non può essere parte di questi cliché. È necessario capire che l’Africa è un continente sfaccettato che non si può riprodurre con una sola immagine. Il senso di orgoglio di cui parlate è cresciuto molto negli ultimi anni, ed è una cosa nuova per un giocatore africano. Eto’o, Drogba, Mané o Salah sono giocatori che hanno reso possibile, per intere nazioni, la celebrazione della propria identità.