Chiudendo senza reti il Clásico di sabato 24 ottobre 2020, Lionel Messi ha aggiunto altri novanta minuti – sono 515 in totale – al tempo che lo separa dal suo ultimo gol in una partita tra Barça e Real. Era il 6 maggio 2018 ed era un gol bellissimo, in cui risaltano i dettagli della sua tecnica brutale e perfetta: dopo aver saltato secco Casemiro sul limite dell’area, spostandosi il pallone verso l’esterno, Messi si trova praticamente in linea d’aria con il palo, con Keylor Navas posizionato sufficientemente bene per reagire a un tiro in quella direzione. Ma Messi, come tutte le cose che esulano dal pieno controllo degli uomini, cancella questa possibilità individuando la traiettoria perfetta e mette il pallone pochissimi centimetri più in qua del palo, con un tiro precisissimo.
Quel Clásico finisce 2-2, ma si gioca una settimana che il Barça ha raggiunto la vittoria matematica della Liga, tra l’altro con tre giornate di anticipo. Per collocare temporalmente quel momento e quella stagione, basterebbe ricordare che era il primo anno di Ernesto Valverde, il primo senza Neymar, l’ultimo con Iniesta e quello in cui Paulinho, catapultato al Camp Nou dalla Cina, segnò nove reti in maglia blaugrana. Durante la stagione erano arrivati, carichi di aspettative, anche Ousmane Dembélé e Philippe Coutinho, e la rimonta subita ai quarti di Champions League contro la Roma un mese prima era un evento così traumatico ed eccezionale che sembrava impossibile da replicare. La caduta del Barcellona, invece, era appena iniziata.
Nel Clásico appena giocato, Messi è andato vicinissimo ad azzerare il conto con quello che sarebbe stato un gol forse ancor più bello, dopo un dribbling ancor più umiliante inflitto a Sergio Ramos, che invece ha segnato per davvero e ha deciso la partita. Perdere contro il Real Madrid – seppure senza demeritare – fa sempre calare una coltre nera sull’ambiente culé e sul modo in cui viene giudicata la squadra; anche se si parla di Leo Messi, che ha appena vinto la sua battaglia più importante, avendo di fatto rovesciato la dirigenza di Josep Maria Bartomeu, attirando su di essa un’onda di dissenso mai vista.
Sul campo, l’inizio di stagione della Pulga, però, non è stato spumeggiante come al solito: in sei partite ha segnato soltanto due gol, entrambi su calcio di rigore. Persino Ronald Koeman ha ammesso che il suo rendimento può essere migliore di quello attuale, così come la sua forma; sarebbe però eccessivo, forse anche ingiusto, parlare di un cattivo avvio di campionato di Messi, che ha finora alternato prestazioni positive, piene di giocate e iniziative, come contro Villarreal e Ferencvaros, ad altre in cui è rimasto più in ombra. Il tecnico olandese sta costruendo il proprio Barça sulle caratteristiche di una rosa ricchissima di palleggiatori, rifinitori e, in generale, giocatori abili ad associarsi tra loro, ma priva di un centravanti di ruolo, come era Luís Suárez o come sarebbe stato Lautaro Martínez: l’identità offensiva (e non) dei blaugrana è ancora in costruzione, dato che dopo aver alternato nel ruolo di falso nove Messi e Griezmann, Koeman ha schierato proprio nel Clásico un giocatore come Ansu Fati, più forte nell’attaccare lo spazio che a svuotarlo.
Ma ciò che è evidente è che il nuovo Barça è una squadra che ha come prima arma il palleggio. In questo scenario, Messi ha fluttuato su tutto il fronte, venendo spesso a giocare sulla linea di Busquets e De Jong, stando tra le linee per facilitare il fraseggio nello stretto con la sua sensibilità tecnica e inventare passaggi illuminanti per i tagli del solito Jordi Alba o di Fati; oppure, molto spesso, occupando il settore di destra. In un contesto ancora in via di definizione e con più di un difetto da coprire, la Pulga sarà probabilmente chiamata a risolvere i problemi di una squadra – per quanto interessante – ancora distante dalla dimensione che le appartiene.
In questo momento della sua carriera, tanto al Barça quanto nella Nazionale argentina, Lionel Messi è costretto a guardare le squadre in cui gioca da una prospettiva diversa rispetto a quella degli anni passati, segnata dall’impossibilità di avere le stesse ambizioni di vittoria immediata. Nell’Albiceleste, che porta con sé una serie ancor maggiore di implicazioni simboliche e sentimentali, sta raccogliendo l’eredità emotiva di Mascherano come leader di un gruppo giovane e nuovo, sorto dopo che il trauma delle tre finali perse e la surreale partecipazione a Russia 2018 cambiassero progressivamente volto alla Selección. Messi è sempre il numero dieci e il capitano della sua Nazionale, ma ora è anche l’unico inamovibile di quel nucleo di campioni nati a fine anni Ottanta, che verrà ricordato come una generazione perduta e che è stata messa da parte dal ricambio – se non si considerano partecipazioni con ruoli meno centrali.
Il suo smisurato talento non lo vede più costretto a vincere trofei in virtù della competitività della sua squadra nell’immediato – persino la Copa America dello scorso anno, di fatto, aveva valori troppo squilibrati per permettere che l’Argentina partisse con le stesse prospettive del Brasile – ma più per l’obbligo che ha con se stesso di lasciare al mondo una percezione di Lionel Messi che gli renda giustizia come vincente a 360°, una condizione che al momento stride l’ingombrante vuoto di titoli vinti con la sua Nazionale. Oggi Messi è la luce che illumina una squadra giovane e inesperta e le sue intuizioni non replicabili lo aiutano a vincere partite che serviranno più a Lautaro Martínez e a Nico Domínguez che a lui.
Al Barcellona è successo qualcosa di molto simile: Messi ha trascinato avanti il peso della squadra nascondendo le falle di un progetto sportivo manchevole, incapace di trovare un’alternativa – o meglio, l’alternativa giusta – all’inevitabile scorrere del tempo. E quindi, come si è convulsamente eclissata la generazione argentina di Brasile 2014, così è sfiorita quella del Barça dell’ultimo vincente decennio, da Dani Alves a Xavi, Iniesta, Rakitic, Suárez, senza che subentrasse Neymar e con Busquets e Piqué che, fisiologicamente scalfiti dal tempo, non dureranno in eterno. Il “trauma-sintesi” • come lo definirebbe il filosofo portoghese Eduardo Lourenço – che Messi ha inflitto pochi mesi fa all’intera tifoseria blaugrana, ovvero la richiesta di cessione via burofax, è forse frutto di questa frustrata fame di vittorie, di questo clima di grandezza in disfacimento, di cui la dirigenza di Bartomeu è stata responsabile.
Forse nemmeno il tempo dirà se l’intenzione originaria di Messi fosse realmente quella di abbandonare la squadra di cui è capitano o di rovesciare l’ormai ex dirigenza, ma per il momento il campione argentino è lì, al centro di un Barça che cerca di ricostruirsi. Un Barça che ha sperperato la sua dimensione e che non ha saputo creare le condizioni per sfruttare questi anni – gli ultimi al top del giocatore più forte della storia del club e, molto probabilmente, del calcio – e costruire altri successi internazionali. Quale sarà il futuro di Messi ancora non è certo – le dimissioni di Bartomeu, arrivate ufficialmente il 27 ottobre 2020, e le conseguenti elezioni anticipate di una nuova giunta potrebbero allontanare definitivamente il terrore di una separazione – ma il suo presente è il Barcellona di Pedri, di Trincão, di Ansu Fati, di Frenkie De Jong e di Sergiño Dest, una squadra giovane e nuovamente interessante che, ora come non mai, ha bisogno di lui.