Potevamo aspettarci una Serie A bullizzata da un quarantenne?

Zlatan Ibrahimovic sta facendo a fette il campionato: ha trasformato il Milan, sta segnando come nessun altro, domina fisicamente ogni tipo di avversario. Un prodigio che ha messo sottosopra la Serie A.

Riesco solo a percepire lontanamente, non certo a mettere a fuoco con la consistenza di chi è costretto a entrare nel suo campo visivo, di quell’ammasso di acciaio e istinto predatorio per oltre 190 centimetri sviluppati in altezza, la palpitazione di affrontare Zlatan Ibrahimovic: scrutarlo da lontano, quindi cercare di prevederne le mosse, e infine contenerlo. Ma come? Non erano finiti, già da un pezzo, i giorni di gloria di Ibra? La sua saga europea lo aveva portato a Manchester, perché anche la Premier cadesse sotto la sua dominanza tecnica e mentale; conquista della Britannia riuscita a metà, con una finale di League Cup piegata al suo volere e qualche altro guizzo, appannato però dall’irreversibilità del malato United. E poi l’infortunio, lungo e tetro, forse fatale, e infine le luci di Los Angeles, dove tra gol da centrocampo e giocate da fermo poteva deliziare senza sforzo un pubblico non uso allo stile-Zlatan.

Ma che diamine: sarà mica che la Serie A ormai vale, in termini tecnici, una Mls qualsiasi? Andiamo per ordine: nessuno, forse nemmeno il diretto interessato, si sarebbe potuto immaginare un giocatore così dominante – per continuità realizzativa, strapotere fisico, lettura del gioco e leadership all’interno della sua squadra. Dice: beh, colpa del livello tecnico. Ma è una chiave di lettura limitante rispetto a un giocatore capace di segnare otto gol in cinque partite, senza dimenticare i dieci centri dello scorso campionato, con un totale di 24 reti rossonere in cui ha partecipato su 25 partite da quando è tornato in Italia. Piuttosto, mettiamola su un altro piano: tolto il biennio allo United, condizionato da un infortunio e in generale dalla difficoltà di misurarsi con un calcio più fisico, di un’intensità maggiore, il dominio di Ibra non si è mai arrestato: ha attraversato a suo piacimento i confini e le epoche, e non c’è ragione di credere che l’età possa cancellarlo o anche soltanto annacquarlo.

Il signor Ibrahimovic, 39 anni compiuti lo scorso ottobre, ha in qualche modo neutralizzato il concetto dello scorrere del tempo: finché l’integrità fisica lo sorregge, Zlatan non è affatto diverso da quello che, dieci anni fa e oltre, faceva vincere partite e scudetti. Anzi: negli anni, come è giusto che sia, il suo peso specifico si è addirittura elevato, se non in un senso individuale, sicuramente nel modo in cui lo riflette sul resto della squadra – la trasformazione del Milan negli ultimi mesi ha inevitabilmente qualcosa di straordinario, tanto nei risultati quanto nella crescita esponenziale dei singoli giocatori. Uno dei primi frame dello strapotere di Ibra in Serie A ci evoca un pomeriggio bagnato a Parma, in cui un’Inter balbettante fu scossa dal torpore con il suo ingresso in campo, grazie alla sua doppietta che suggellò la vittoria dello scudetto. Oggi c’è qualcosa di più: la sua presenza è debordante, e certamente salvifica delle ambizioni del Milan, ma è determinante in un senso più ampio, e passa necessariamente dalla volontà di mettersi al servizio della squadra, con l’intento di aiutare quel percorso di crescita del gruppo rossonero di cui oggi, finalmente, si vedono i primi risultati.

«Le responsabilità me le prendo io: mi piace. Gli altri devono soltanto lavorare e crederci, al resto ci penso io», è la sintesi di Zlatan dopo la vittoria a Udine. Uno scenario che suggerisce, con le dovute proporzioni, quello che accadeva a Chicago ai tempi di Michael Jordan: MJ era arrivato in una squadra senza grosse ambizioni né qualità, e provare il suo talento in un contesto sconfortante e sconfortato aveva fatto nascere in lui una perenne frustrazione e insoddisfazione. Anche con il passare degli anni, quando i Bulls misero finalmente in piedi un progetto competitivo, Jordan continuava a vivere con fastidio l’inevitabile qualità inferiore dei compagni di squadra: persino un fenomeno della pallacanestro come Scottie Pippen, nei primi anni, era guardato con sospetto dal 23. La cultura sportiva che si fece largo a Chicago, perciò, era quella di dover dare il massimo e anche oltre: la presenza ingombrante di Michael Jordan, il cui fiato soffiava sul collo di tutti i suoi compagni senza sosta, imponeva uno sforzo aggiuntivo, ed esigeva che ognuno andasse oltre i propri limiti.

Dal ritorno di Ibrahimovic in Italia, il Milan è stata la squadra che ha raccolto più punti in Serie A: sono 62 in 28 partite, seconda è l’Atalanta (Miguel Medina/AFP via Getty Images)

Il modo, sorprendentemente repentino, con cui il Milan si è trasformato con l’arrivo di Ibra, da squadra discontinua e insicura a prima forza del campionato, è fin troppo clamoroso perché si possa pensare che lo svedese abbia fatto tutto da solo, senza il supporto dei compagni di squadra. Dal ritorno di Zlatan in Italia, il Milan ha conquistato 62 punti in 28 partite, una media da scudetto, più di qualsiasi altra squadra del campionato nello stesso periodo. L’impatto di Ibra, in campo, è sotto gli occhi di tutti: ma è lontano dalle telecamere che si percepisce che si sia davvero consumata la trasformazione più profonda, quella che ha toccato la testa di tutto il gruppo-Milan. «Hanno una voglia e una fame incredibili, non sono mai soddisfatti e vogliono sempre di più», ha detto Zlatan dei suoi allievi, pardon, compagni di squadra. La benzina? Ce l’ha messa lui stesso, con la sola presenza.

Poi, ovviamente, ci sono le sue giocate determinanti, e un tema che non può essere ignorato: quello della longevità, perché soltanto poche stagioni fa un atleta entrato nel quarantesimo anno d’età sarebbe stato accompagnato al viale del tramonto, riducendone minutaggio e di conseguenza centralità all’interno della squadra (vi ricorda qualcuno?). A Ibra non è successo perché non ha permesso che potesse succedere: è tornato al Milan dietro garanzia di regolare impiego, e al Milan certamente non potevano dire di no di fronte a un’offerta così generosa. Il resto lo fanno la professionalità, la dedizione e la cultura del lavoro di Ibra (quando diceva “i leoni non recuperano come gli umani”? Beh, non suona più come una spacconata oggi come oggi): lo svedese può permettersi di giocare ogni tre giorni nel calendario allucinato di questo 2020 («sono un po’ stanchino», ha detto dopo il match contro il Verona, eppure al 93′ ancora sovrastava fisicamente tutto quello che gli passava sotto il naso), di prodursi in spettacolari acrobazie come quella che di fatto ci eliminò da Euro 2004 (sono passati sedici anni! Sedici!), di prendere qualsiasi cosa arrivi alle sue altezze lunari (sono ben cinque le reti messe a segno di testa dal suo ritorno in Italia, senza contare che nessuno in tutto il campionato ha vinto più duelli aerei di lui).

Con 6,6 duelli aerei vinti a partita, Ibra è di gran lunga il primatista della Serie A sotto questo aspetto (Emilio Andreoli/Getty Images)

I meriti, dunque, se li deve prendere il Milan tutto per un primo posto e un’imbattibilità in campionato che dura da oltre otto mesi, ma è davvero uno scenario senza precedenti che un giocatore da solo abbia rivoluzionato umori, destini e soprattutto risultati di una realtà che appariva allo sbando. Non è qualcosa che succede tutti i giorni – o tutte le stagioni, e magari tutti i decenni – e che ci deve far riflettere, negli anni a venire, sulla straordinarietà della carriera di Ibrahimovic: che sia un fuoriclasse, un trascinatore, un leader tecnico lo ha mostrato nel modo più brutale, proprio in questa seconda esperienza rossonera. E che sia arrivato sulla soglia dei 40 anni racconta come la “biologia” di questi super-campioni come lo svedese (o come Cristiano Ronaldo: chi volete sia il suo più immediato inseguitore nella corsa al titolo capocannonieri?) sia stata geneticamente mutata dalla loro etica professionale, dalla loro propensione al sacrificio, dalla loro ossessione nel voler primeggiare. E in questo non c’è età che tenga.