Il rinnovo con il City segna la nascita di un nuovo Guardiola?

Pep non era mai rimasto così a lungo in un club: il suo obiettivo è lasciare un'impronta come quella di Ferguson allo United o di Cruijff al Barcellona?

La sconfitta per 2-0 del Manchester City contro il Tottenham di sabato 21 novembre somiglia sinistramente alle altre partite dalla squadra di Guardiola nell’ultimo periodo. Una palla persa a metà campo diventa una verticalizzazione avversaria, manda in tilt l’intero sistema difensivo dei Citizens e finisce in porta. E poi ancora: il tentativo di recuperare lo svantaggio non produce granché, se non un altro contropiede letale. È una sconfitta che allunga un trend negativo che si protrae da circa un anno: dopo i due campionati vinti con 100 e 98 punti, Guardiola aveva detto di aspettarsi ancora di più all’inizio della scorsa stagione. Ma non è andata esattamente così: il City ha chiuso la Premier League 2019/20 con 81 punti, 18 lunghezze dietro il Liverpool, quindi si può dire che il testa a testa con i Reds non sia mai esistito; in Champions League è arrivata l’ennesima eliminazione ai quarti di finale, contro il Lione.

Questo andamento negativo di una delle squadre più forti del mondo sembra stonare con il rinnovo del suo allenatore, che la settimana scorsa ha prolungato il suo rapporto con il City almeno fino al 2023: al termine del contratto, saranno sette le stagioni che Guardiola ha vissuto sulla stessa panchina. Un tempo enorme per i cicli di vita di un allenatore in un club di primo livello, soprattutto nel calcio contemporaneo. Questa firma, però, segna una novità assoluta anche nella carriera di Guardiola: oggi è chiamato a prolungare il suo ciclo al City, o a iniziarne uno nuovo, di ricostruzione. Si tratta di un impegno che non aveva mai preso fino a oggi: era rimasto quattro anni a Barcellona e tre al Bayern Monaco, andando via sempre con la sensazione di aver concluso un percorso. A Barcellona ha lasciato dopo aver vinto tutto più volte – e anche perché si sentiva fiaccato dalle sfide con Mourinho, che l’hanno tenuto impegnato sul piano tattico, psicologico, retorico. Annunciando il suo addio al Barça, nel 2012, disse: «Quattro anni sono un’eternità per chi guida il Barcellona. Ora devo fermarmi, il mio ciclo qui è finito». A Monaco, invece, ha chiuso la sua avventura dopo aver capito non essere più seguito dallo spogliatoio, forse anche a causa del mancato raggiungimento dell’obiettivo  Champions League.

In una video-intervista pubblicata sul canale YouTube del Manchester City, Guardiola spiega il motivo del suo rinnovo proprio con le parole opposte «unfinished business», lavoro incompleto. Dal montaggio, sembra che la sensazione di incompiutezza accomuni entrambe le parti in causa dell’accordo, Pep e la società: mentre il manager dice queste parole, scorrono le immagini dei suoi abbracci e sorrisi con i dirigenti Txiki Begiristain e Ferrán Soriano, poi con il chairman Khaldoon Al Mubarak. Subito dopo la telecamera stacca su di lui, c’è Guardiola seduto in sala stampa che mostra di essere sollevato, accenna una smorfia, dice di avere ancora qualcosa da fare.

Impossibile non pensare alla Champions League, l’obiettivo dichiarato del Manchester City all’inizio di ogni stagione. Ma il semplice discorso riferito al successo in una competizione, anche se parliamo della più importante e affascinante del mondo, non può bastare. Dopotutto, come detto, anche al Bayern ha chiuso la sua esperienza senza cogliere il grande trionfo in Europa. E poi Guardiola a Manchester ha già vinto due Premier League, tre Coppe di Lega, la FA Cup, inoltre è già da tempo l’allenatore più vincente nella storia del club. Perciò possiamo dire che la scelta di rimanere al City sia diversa da tutte quelle precedenti: c’entrano i titoli, sì, ma c’entrano anche il rapporto con la società, il tipo di lavoro che ha impostato a Manchester. Infatti, Guardiola continua così nell’intervista rilasciata dopo il rinnovo: «Quello che mi ha spinto a rinnovare sono tutte le persone che lavorano in questa società, in tutti i dipartimenti», e poi cita la squadra del marketing, l’ufficio stampa, il team delle sponsorizzazioni, persone che appartengono a settori lontanissimi dal campo e dal suo lavoro day by day. Sono parole di circostanza, certo, però restituiscono il senso di un’immersione totale, di una fusione tra club e allenatore, tra società, staff e squadra. Infine Pep racconta come lui e la dirigenza siano consapevoli che la valutazione sul suo lavoro non dipende da una vittoria o una sconfitta, va oltre i risultati, le vittorie, i trofei. Insomma, dentro e dietro questa scelta c’è tutto, mescolato bene.

Il lavoro di Guardiola ha sempre viaggiato su due direttrici: da una parte c’è la volontà di vincere, dall’altra quella di lasciare un’ereditàMa in realtà va così da sempre, il lavoro di Guardiola – a Barcellona, a Monaco e oggi a Manchester – ha sempre viaggiato su due direttrici: da una parte c’è la volontà di vincere, dall’altra quella di lasciare un’eredità. Al City questa seconda parte conterà più della prima. In un’intervista al Guardian del 2016, Pep parlava così dell’impronta di Johan Cruijff – il tecnico che più ne ha segnato lo sviluppo come calciatore, allenatore, uomo – nella storia del Barcellona: «Prima che arrivasse non avevamo una cattedrale del calcio, questa bellissima chiesa, a Barcellona. Avevamo bisogno di qualcosa di nuovo. Ora c’è, ed è qualcosa che è durato. È stato costruito da Johan Cruijff. Pietra su pietra. Ecco perché Johan era speciale. Creare qualcosa di nuovo è la parte più difficile». La rivoluzione portata da Cruijff ha gettato le basi per lo sviluppo del guardiolismo, con principi codificati già prima dell’approdo di Guardiola in panchina. Partendo dalla sua stessa metafora, Pep si è dunque trovato a fare la manutenzione di una cattedrale bellissima e già esistente. Poi l’ha aggiornata, ovviamente, ha portato quell’idea di Barcellona a livelli impensabili, ha costruito l’arma calcistica più dominante e bella da vedere dell’era moderna. Ma lo ha fatto su delle basi preesistenti, solide, che ha potuto e saputo sfruttare.

Nella sua esperienza da allenatore del Barcellona, Guardiola ha vinto 14 titoli in quattro stagioni, sei su sei nell’anno solare 2009 (Lluis Gene/AFP via Getty Images)

Al Manchester City tutto questo non c’era, prima di lui. Non c’era una storia di quel tipo, non c’era una cultura calcistica globale e moderna, non c’erano una dimensione e un valore d’élite in ogni aspetto societario. È qui, è così che vuole lasciare il segno Guardiola: se Cruijff è il padre fondatore del Barcellona, Guardiola vuole esserlo del City. A Manchester, dunque, definirà quella che gli americani chiamano legacy, che si traduce letteralmente in “eredità” ma è qualcosa di più profondo: quel che ha costruito e continuerà a costruire, a sua immagine e somiglianza, sarà ciò che rappresenterà per sempre il City; sarà il suo lascito nel calcio, perché Guardiola verrà ricordato come l’uomo che ha forgiato i successi dei Citizens. Non solo quelli che sono arrivati con lui, ma anche quelli che arriveranno negli anni successivi, dopo il suo addio.

Le prime stagioni della proprietà emiratina a Manchester hanno portato una crescita istantanea attraverso il mercato: i risultati del club sono cambiati quasi subito, il primo titolo nazionale risale al 2012, quattro anni dopo il passaggio delle quote, poi nel 2014 è arrivato un altro successo in Premier League. Ma dopo le vittorie di Mancini e Pellegrini serviva un passo in più per andare oltre, per costruire una cultura calcistica, un progetto più organico. È qui che si inserisce Guardiola. Il lavoro che sta facendo è già visibile: lo vedi nella valorizzazione dell’Academy, ad esempio, che negli ultimi anni ha tirato fuori talenti come Foden, Sancho, Brahim Díaz. Oggi ci sono i nuovi in rampa di lancio: Cole Palmer, Taylor Harwood-Bellis, Tommy Doyle e Liam Delap. Anche dal punto di vista finanziario l’investimento su Guardiola ha portato ampi benefici alla società: il valore della rosa è più che raddoppiato dal 2016 a oggi (da 498 milioni 1,08 miliardi, dati Transfermarkt) e il fatturato è cresciuto da 463 a circa 600 milioni di quest’anno.

E c’è ovviamente il capitolo della valorizzazione dei giocatori. L’abilità maieutica di Guardiola non è nuova, abbiamo imparato a conoscerla a Barcellona, è stata confermata al Bayern Monaco, l’ha portata e mostrata pure a Manchester. Nelle mani del catalano i giocatori migliorano tecnicamente, tatticamente, mentalmente, e raggiungono il loro picco di rendimento. In questo Guardiola sta lentamente svincolando la sua esperienza al City dal risultato del campo – che forse segretamente è sempre stato un suo sogno – e si sta concentrando sullo sviluppo del talento, qualcosa che lo avvicina a Marcelo Bielsa, un allenatore che considera «il migliore al mondo: perché non importa se non ha vinto titoli, quel che conta è l’influenza che ha sui suoi giocatori. Io ho una grande ammirazione nei suoi confronti per come riesce a migliorare gli elementi a sua disposizione».

In quattro stagioni sulla panchina del Manchester City, Guardiola ha vinto otto competizioni: due Premier League, tre Coppe di Lega, due Community Shield e una Fa Cup (Mike Hewitt/Getty Images)

All’inizio della sua quinta stagione a Manchester, però, il suo approccio sembra aver raggiunto un punto di rottura difficile da ignorare. E da superare. Verosimilmente perché nel lungo periodo i metodi di lavoro di Guardiola sono sfiancanti e usuranti, sono difficili da sostenere dal punto di vista fisico ma soprattutto psicologico. È il suo stile, lo ha ricordato Marc Bartra intervistato da The Athletic: «Ogni giorno, ogni sessione di allenamento, anche nel riscaldamento, durante le gare, Pep è letteralmente sopra di te. Non vuole lasciare alcun dettaglio al caso. Alla fine, questo assicura che tu debba essere concentrato al 100% in ogni momento». Il lato oscuro di questo meccanismo è la difficoltà nel replicare questo schema molto a lungo. Ed è per questo che Guardiola ha sempre considerato il tempo di un allenatore sulla stessa panchina molto limitato. Fino a oggi, almeno.

Nel lungo periodo i metodi di lavoro di Guardiola sono sfiancanti e usuranti, difficili da sostenere dal punto di vista fisico e psicologicoA Manchester, è evidente, ha trovato stimoli diversi. Vanno ricordate, per esempio, le difficoltà della prima stagione, la prima in cui non ha vinto trofei da allenatore, e in cui ha avuto qualche problema in più a far giocare la sua squadra come avrebbe voluto e potuto. Poi, negli ultimi anni, il confronto continuo con il Liverpool: un testa a testa che ha costretto i due allenatori rivali – Guaridola e Klopp – a superarsi l’un l’altro in un duello perpetuo, sublimato in quella campagna 2018/19 chiusa all’ultima giornata con la vittoria del City. Lo stesso tecnico catalano aveva spiegato che l’alto tasso di difficoltà della (loro) Premier League era stata uno stimolo costante: «Dopo quel che abbiamo fatto la scorsa stagione siamo riusciti ad alzare ancora il livello. Il Liverpool è stato incredibilmente costante e abbiamo dovuto vincere 14 partite di fila per essere campioni. Il Liverpool ci ha aiutato a essere qui, perché negli ultimi due mesi sapevamo che non avevamo possibilità di perdere un singolo punto. Hanno fatto una stagione incredibile, ma noi siamo stati leggermente migliori».

È anche per questo che Guardiola è cambiato rispetto a se stesso, ha deciso di dare una direzione diversa alla sua carriera, di segnare la sua legacy in un altro modo, di dipingere la tela a modo suo. Adesso, dopo aver vinto trofei importanti e difficili, può lavorare con metodi e obiettivi nuovi. Se al Barcellona e al Bayern Monaco non vedeva la possibilità di rinnovare un ciclo vincente, al City è diverso. In qualche modo allenatore e dirigenza devono aver anche concordato modi e tempi per portare un rinnovamento consistente, e che oggi sembra necessario. Ma per la prima volta non è così chiaro che direzione prenderà la sua squadra. Certo, sono stati inseriti in rosa volti nuovi come Ferrán Torres o Ruben Dias, poi è iniziato un evidente in alcuni slot della squadra – sono partiti alcuni veterani come Kompany o David Silva, stanno diminuendo il peso e l’influenza di Agüero e Fernandinho mentre stanno trovando spazio giocatori più giovani, tra cui Foden o Gabriel Jesus.

Lo score di Guardiola sulla panchina del Manchester City è di 176 vittorie, 33 pareggi e 37 sconfitte in 246 partite di tutte le competizioni ufficiali (Shaun Botterill/Getty Images)

Guardando in direzione 2023, il termine del nuovo contratto di Guardiola, non si capisce però quali saranno gli sviluppi futuri: nei prossimi mesi ci sarà un ribaltamento totale della rosa, con investimenti massicci per cambiare l’ossatura della squadra? Oppure l’organico sarà puntellato solo con alcuni giovani che saranno i pilastri del prossimo ciclo vincente? Oppure, ancora, l’estate prossima il panorama potrebbe essere stravolto dall’arrivo di Lionel Messi, che segnerebbe un cambio di direzione netto rispetto al passato in termini di politica di mercato, ma anche un elemento tattico con qualità ed esigenze ancora sconosciute a Manchester. Di sicuro ,mai come nella prossima sessione di mercato Messi non sarà certo di restare a Barcellona. E c’è un solo posto nel mondo in cui potrebbe andare. O meglio, un solo allenatore da cui potrebbe andare.

Scegliendo di prolungare il contratto del suo allenatore, il Manchester City ha dunque fatto una scelta quasi controintuitiva rispetto al momento storico e all’andamento della propria squadra. Ha avviato un nuovo progetto colmo di interrogativi, di dubbi, di rebus che sarà divertente vedere risolti. Allo stesso tempo, però, tutti questi aspetti di cui abbiamo parlato chiariscono come non ci fossero alternative: lo stesso discorso su Messi, l’idea che il fuoriclasse più grande possa lasciare il Barcellona e possa unirsi solo al City, spiega come Guardiola abbia portato lo status del suo club su nuovi livelli. E poi, al suo posto, chiunque sarebbe stato un downgrade: andando oltre Messi, il fattore determinante per il reclutamento sul mercato resta legato a Guardiola. Certo, quasi tutte le grandi squadre possono spendere cifre con otto zeri. Però solo al City si può lavorare con Pep. Il manager catalano ha un potere d’attrazione così forte che evidentemente è stato esercitato anche sulla dirigenza del City, che si è convinta a continuare il rapporto con lui, lasciandogli campo libero e aperto per diventare il primo grande uomo-simbolo del club nell’era moderna. Come per Cruijff al Barcellona, come per Ferguson allo United, in un’altra parte di Manchester, il percorso fatto fin qui ha creato una sovrapposizione perfetta tra il City e il suo allenatore: oggi, Pep Guardiola è il Manchester City. E allora non c’era motivo per cui non dovesse esserlo anche nei prossimi anni, evidentemente.