Una Roma bella e vincente, anche senza Dzeko
Fin da quando è arrivato in Italia, Paulo Fonseca ha manifestato una dote: sa adattarsi al contesto, pur senza stravolgere le sue idee di base. Il passaggio alla difesa a tre nello scorso campionato, gli infortuni di Zaniolo, la gestione del caso di mercato intorno a Dzeko e ora l’assenza dell’attaccante bosniaco, causa Coronavirus: queste sono solo alcune delle contingenze che hanno condizionato il lavoro del tecnico portoghese, ma in tutte le situazioni è andata bene. Non sempre la risposta/reazione è stata immediata, o immediatamente positiva, ma alla fine è arrivata una soluzione. È arrivata anche adesso, oggi la Roma è una squadra ibrida tatticamente, che non poggia più sulla forza straripante del suo centravanti, ma ha anche altre armi: Mkhitaryan, certo, ma anche Borja Mayoral, i giovani Ibañez e Villar, Cristante schierato in un ruolo liquido che fu anche di De Rossi (centrale di una difesa a tre e primo uomo in impostazione), e poi ancora Pedro, Spinazzola e anche giocatori che sembravano ormai fuori dal progetto giallorosso, per esempio Bruno Peres e Karsdorp. La qualità media della rosa giallorossa non è tra le migliori del campionato, questo è evidente ed stata è la causa della mancata qualificazione in Champions negli ultimi due anni, eppure la coerenza di fondo garantita dall’allenatore portoghese rende possibili gli accorgimenti tattici, allarga i margini di crescita del progetto tecnico e societario, ovviamente porta punti in classifica: contro il Parma la vittoria non è stata mai in discussione, la superiorità della Roma è stata evidente, netta, in alcuni frangenti i giocatori di Fonseca hanno dato l’impressione di poter segnare a ogni azione, trovavano soluzioni sempre diverse per penetrare nella difesa avversaria, per creare superiorità numerica sulle fasce, in mezzo al campo, proprio come sa fare (bene, e senza lamentarsi) il loro allenatore. Che era stato messo in discussione, e ora si ritrova al terzo posto, subito dietro Sassuolo e Milan, dopo due partite senza Dzeko. Sembrava uno scenario non ipotizzabile, ora è realtà.
Il Milan oltre Ibra, ovvero la varietà insospettabile dell’attacco
Quando anche il giovane Jens Petter Hauge, sul finire del mercato estivo-autunnale, si è aggregato al Milan, in non pochi si sono chiesti: un altro attaccante? Oltre a Ibrahimovic, Rebic, Diaz, Castillejo, Saelemaekers, Leão, Calhanoglu, Colombo? Non potevano, Maldini e colleghi, concentrarsi maggiormente sulla difesa? Una cosa non esclude l’altra: è vero che il Milan è una squadra squilibrata, e il conto totale dei gol subiti in campionato non racconta tutto delle difficoltà di una retroguardia corta e con poche soluzioni. Ma è altrettanto vero che il multiforme reparto offensivo del Milan, oggi, è proprio ciò che sta mantenendo la squadra di Pioli in testa a un campionato strano e avvincente. Dopo una primavera e un’estate a ritmi scudetto, la flessione dei rossoneri è arrivata, come era facile immaginarsi, a ottobre e novembre: la vittoria all’ultimo con l’Udinese, la brutta sconfitta con il Lille, e il pareggio con il Verona. Alcuni dei migliori giocatori “estivi” sono apparsi un po’ appesantiti, soprattutto Calhanoglu, forse anche distratto dalle questioni rinnovo, e il giovane Saelemaekers. Tempestive, sono allora arrivate le forze fresche: ieri, contro il Napoli, il Milan è tornato a giocare sui livelli di qualche mese fa. Parte del merito è proprio della freschezza dei cambi, e in particolare di quel Rebic che ieri, al ritorno dall’infortunio, ha ispirato Ibrahimovic e messo in costante difficoltà la difesa del Napoli, intendendosi alla perfezione con un redivivo Theo. Senza Ibra, fermato da un infortunio muscolare, il croato ha dimostrato di poter reggere l’attacco da solo. E il terzo gol, appena prima, forse, della spinta finale dei padroni di casa, l’ha segnato proprio Hauge, sempre da subentrato, come contro il Celtic, perfetto e veloce nel battere in velocità Manolas e bucare Meret. La varietà, per ora, sta facendo la forza della capolista, in attesa pure di Brahím Diaz.
In copertina c’è Ibra, ovviamente, ma il Milan di ieri sera è stato anche altro
Il valore di Ronaldo per la Juventus
Al termine della gara contro il Cagliari, Andrea Pirlo si è detto contento del fatto che la sua squadra, la Juventus, avesse finalmente dominato il gioco come piace a lui. Tutto vero, tutto giusto: i bianconeri hanno mostrato di essere in crescita, di aver metabolizzato – almeno in parte – le richieste ambiziose dell’allenatore, soprattutto per quanto riguarda i continui elastici (fisici, ma anche tattici) tra le varie fasi di gioco. Poi, però, è servito Ronaldo perché questa (netta, indiscutibile) superiorità si traducesse in gol, si sublimasse in una vittoria. Intendiamoci: non c’è nulla di male, Ronaldo è un calciatore della Juventus, è un atleta fortissimo e quindi il fatto che i bianconeri diventino molto più efficaci quando Cristiano va in campo (sei gol e un assist nelle cinque gare ha iniziato da titolare, con quattro vittorie della Juve, più la doppietta contro lo Spezia da subentrato) è del tutto normale. Allo stesso modo, questi numeri sottolineano il peso del portoghese nell’economia del gioco di Pirlo: con Ronaldo, la Juventus acquista presenza e forza nell’ultimo terzo di campo, aumenta a dismisura la sua capacità di finalizzare la manovra ma ha anche uno sfogo di prima qualità per il possesso, soprattutto in un sistema come quello costruito da Pirlo, che permette a CR7 di muoversi con assoluta libertà, mentre Morata lavora “sporco” per allungare e/o allargare la difesa avversaria, per creare e costruire spazi. Il primo gol è l’esempio di tutto questo: la Juve ha risalito il campo in maniera armonica, ha accerchiato l’area di rigore del Cagliari, tutto bello e perfetto, poi Ronaldo ha chiuso il cerchio con un bellissimo tiro sul secondo palo. È questa l’essenza del suo gioco, è ciò che Pirlo sta inseguendo: una squadra che domina il gioco dal punto di vista tattico ed emotivo, che concede pochissimo, tanto davanti c’è Ronaldo.