Di cosa è fatto l’amore che proviamo per i calciatori e le squadre di calcio? È diverso dalla definizione solita di amore: non si nutre, per dirne una, di prossimità. Eppure per certi atleti, e per alcuni club soprattutto, si tratta di qualcosa di simile: eleggiamo i giocatori a nostri idoli personali, e i club a nostra rappresentazione, quando invece sono entità lontanissime da noi; il nostro attaccamento è sincero, eppure è basato su una relazione che esiste soltanto nella nostra testa. Naturalmente non conosciamo queste persone davvero, e le società sono istituzioni private che solo a volte esprimono i valori e i significati che gli ascriviamo, spesso, in maniera del tutto arbitraria.
Il problema nasce quando proiettiamo tutti questi sentimenti sui giocatori e sulle società, quando pensiamo – anzi: pretendiamo – che loro ci amino come facciamo noi, che debbano farlo, e che si amino anche tra loro. La realtà, ovviamente, è molto diversa, e meno romantica: tutti i giocatori del mondo sono dei professionisti, ovvero delle mini-aziende che regolano le proprie scelte in base alle convenienze; lo stesso discorso vale per i club, aziende vere e molto grandi che agiscono in modo da salvaguardare i propri interessi, per cui l’amore dei tifosi è solo uno dei principali mezzi di sostentamento economico. Le eccezioni a questo schema sono poche, ed esistono secondo una proporzione che riflette semplicemente la realtà: cioè, ci sono delle persone che amano davvero e quindi non lascerebbero mai il proprio capo e il proprio ufficio e il proprio lavoro, ma la maggior parte di noi sarebbe pronta a dimenticare tutto, subito, in cambio di una paga più alta, di un impiego più prestigioso o semplicemente meno faticoso. Ecco, per i calciatori e gli allenatori e i presidenti funziona così, sempre o quasi sempre. Quando noi, invece, non abbiamo mai pensato di poter sostituire la nostra squadra del cuore o di rinnegare il nostro giocatore preferito.
Ho ripensato a tutto questo negli ultimi giorni, quando ho visto cosa sta succedendo a Bergamo tra l’Atalanta, Gian Piero Gasperini e Alejandro Gómez. La squadra bergamasca sta vivendo il miglior momento nella sua storia, non è mai stata così forte, così riconoscibile sul palcoscenico domestico e internazionale. In una situazione tanto esaltante, tanto appagante, era inevitabile che i tifosi nerazzurri – così come tutti gli altri appassionati di calcio – pensassero all’Atalanta come a un ambiente impermeabile a qualsiasi tempesta, che tutte le persone dentro e dietro la squadra avessero creato tra loro dei legami forti, indissolubili, che il loro rapporto andasse oltre gli equilibri tattici, economici, gerarchici che regolano il mondo del calcio. Era anche una questione di peso specifico dei personaggi: nell’Atalanta che raggiunge i quarti di finale di Champions League dopo essersi qualificata per la prima volta al torneo più importante del mondo, che si qualifica ancora allo stesso torneo e che è in corsa per superare di nuovo la fase a gironi, nell’Atalanta che esprime un calcio così moderno ed efficace, era impossibile che l’allenatore e il miglior giocatore della rosa, che tra l’altro indossa anche la fascia di capitano, potessero litigare in maniera così dura, potessero farlo praticamente in pubblico, senza nascondere nulla, o quasi.
Quando ho visto Marriage Story su Netflix, in alcuni momenti del film mi sono sentito come se mi stessero pugnalando allo stomaco e stessero infierendo sullo stesso punto. La storia è semplice, c’è una coppia sposata che sta divorziando dopo aver vissuto anni molto felici, e c’è di mezzo un bambino; il loro addio è lungo e complicato, sia Nicole (Scarlett Johansson) che Charlie (Adam Driver) arrivano a tirare fuori il peggio di se stessi, a essere davvero crudeli nelle loro parole, in alcuni comportamenti. Marriage Story è un film-verità, nel senso che ti fa realizzare alcune cose: io, per esempio, ho realizzato che tutti i rapporti umani, anche quelli apparentemente più solidi, in realtà sono frangibili e quindi possono deteriorarsi facilmente; che quando un legame si spezza è una cosa triste per tutti, non ha sempre senso cercare di capire chi ha più colpe; e che servono amore e cura anche quando arriva il momento di lasciarsi andare.
Ecco, sto mischiando le storie di Gómez, di Gasperini e dei personaggi di Marriage Story, sto di nuovo proiettando dei sentimenti umani in una vicenda calcistica, quindi puramente professionale. Ma ho già detto che in questo caso era impossibile non farlo, del resto si tratta di un rapporto che sembrava solidissimo e invece ora abbiamo scoperto che non lo è più. Anzi, che non lo era più, almeno nei termini in cui l’avevamo immaginato, in cui ci era stato raccontato. Perché a questo punto è evidente che ci fossero rancori che covavano da un po’ sotto la cenere, e che quanto accaduto durante e dopo il primo tempo della partita tra Atalanta e Midtjylland – pare che Gasperini abbia chiesto a Gómez di cambiare la posizione in campo e che Gómez inizialmente si sia rifiutato di farlo, per poi spostarsi senza convinzione; dopo, nell’intervallo, ci sarebbe stato un confronto molto acceso tra i due, non solo verbale, prima della sostituzione del Papu con Ilicic – sia stato solo il tizzone grosso del camino che ha preso bene, e allora il fuoco ha iniziato ad ardere forte. A bruciare tutto il resto della legna.
Magari per Gómez e Gasperini e i dirigenti dell’Atalanta, in quanto professionisti dello sport business, questo litigio è solo l’ultimo di una lunga serie. Ma la visione di chi segue il calcio è stata ed è sempre diversa, profondamente irrazionale: e allora certe situazioni sono come un’epifania al contrario, sono miti che crollano sotto il peso della realtà, sono persone che si rivelano come tali, ovvero esseri estremamente frangibili – soprattutto nel rapportarsi con gli altri.
Per chi segue l’Atalanta, poi, i problemi si moltiplicano: i tifosi hanno dovuto metabolizzare la realtà, e ora pure chi non vorrebbe deve schierarsi, deve scegliere la propria posizione politica. Non è facile: io, che non sono emotivamente coinvolto, credo di stare dalla parte di Gasperini e della società, credo che Gómez non si sia comportato nel modo migliore, che sia stato un po’ supponente e irriconoscente; eppure ho dei dubbi, del resto non posso conoscere a fondo la storia, magari Gasperini avrebbe potuto anche fare un passo indietro, forse, chissà. Questa indecisione non deve essere una bella sensazione per chi vive l’Atalanta, per chi si è visto privato di un presente calcistico certo e luminoso, però destinato a finire (perché Gómez ha 32 anni e l’Atalanta esisterà anche dopo di lui), con la promessa – tutta da verificare, come tutte le promesse – di un futuro ancora più scintillante.
Quando ci ricorderemo di questa Atalanta, penseremo a Gasperini e Gómez, insieme, e per un po’ questa sarà la cosa più triste: l’intero ambiente, la società, lo staff tecnico, i giocatori, i tifosi, i diretti interessati, tutti dovranno convivere coi fantasmi di quello che è stato, con un passato bellissimo, forse irripetibile, e neanche troppo lontano nel tempo. È umano e inevitabile, in certi momenti, domandarsi cosa sarebbe potuto andare diversamente, e un attimo dopo cercare di capire chi avesse ragione tra Gasperini e Gómez. Anche qui, però, la delicata complessità di certe vicende dovrebbe portare a un approccio diverso, meno netto, anche perché entrambi hanno fatto il proprio bene e hanno fatto grande l’Atalanta, sono stati felici insieme fino a un certo punto. È per questo che né Gasperini e Gómez non meriterebbero rabbia né risentimento, al di là di come siano andate le cose; forse giusto un po’ di rimpianto per una fine che, magari, è stata anticipata solo di qualche mese.
Le parole sui social di Gómez e le dichiarazioni non proprio concilianti di Gasperini sono dei segnali chiari: almeno in questo momento, è difficile pensare di ricomporre la rottura, anzi il capitano dell’Atalanta ha detto che racconterà la sua verità quando lascerà Bergamo. Ecco, l’addio sarà un altro momento difficile da gestire, l’ultimo prima di provare a voltare pagina: il mondo Atalanta dovrà accompagnare Alejandro Gómez all’addio, e lo farà chiedendosi se questa sia la fine giusta per una storia meravigliosa, se il club si gioverà davvero di questa scelta. Non sarà facile: serviranno cura, attenzione, rispetto per le persone, i ruoli, i ricordi, e poi servirà fiducia verso il futuro. Serve amore quando arriva il momento di lasciarsi andare, anche nel calcio.