La sconfitta per 4-1 della Roma contro l’Atalanta ha un valore simbolico prima ancora che pratico: contro un avversario che ha valori simili da un punto di vista tecnico, tattico, atletico, i giallorossi non riescono mai a vincere. I pareggi contro Juventus, Milan e Sassuolo, le sconfitte larghissime subite a Napoli e a Bergamo, sono tutti risultati frutto di partite molto diverse tra loro, ma raccontano di una squadra che, almeno in questo momento, non sembra poter competere con le migliori del campionato – una sensazione stridente rispetto alle gare contro avversari inferiori, quando a volte la squadra di Fonseca sembra riuscire a giocare con il pilota automatico. È per questo che la caduta di Bergamo non incide tanto sulla classifica, almeno per il momento, ma evidenzia ancor di più i limiti di una squadra che fin qui sembrava aver fatto tutti i passi giusti nel suo percorso di crescita, tra l’altro in un periodo molto particolare, a causa della pandemia ma anche per la situazione del club. Solo che a un certo punto la Roma sembra dover sbattere, inevitabilmente, sui suoi limiti strutturali.
Dall’arrivo di Paulo Fonseca in panchina, ormai un anno e mezzo fa, la Roma è cambiata più volte, si è evoluta procedendo quasi per tentativi, fino a trovare un suo equilibrio: il risultato è una squadra che in questo primo scorcio di stagione ha totalizzato 23 punti in 13 partite, segnando 28 gol (terzo miglior attacco) e accumulando 31,6 xG, miglior dato della Serie A, e che inoltre si è qualificata con facilità nel girone di Europa League. Per salire ulteriormente di livello, però, dovrebbe andare oltre queste (buone) basi gettate. Non è scontato che la Roma ci riesca, non è detto che sia un passaggio alla portata per i giallorossi, ma è sicuramente necessario: le dirette concorrenti per la qualificazione in Champions – se parlare di scudetto sembra eccessivo, un posto in Europa League pare scontato – hanno rose più lunghe, più forti, o semplicemente sono più avanti rispetto ai giallorossi nel loro percorso di crescita.
Abbiamo parlato di rosa non a caso, perché in realtà Fonseca ha costruito una squadra lineare, coerente, efficace anche se basata su pochi concetti chiave. L’idea fondamentale è che si debbano esaltare i pregi di alcuni giocatori, e nascondere i difetti degli altri. Nel gruppo degli elementi da far brillare rientrano Mkhitaryan e Pedro, che a Roma stanno trovando un nuovo picco di rendimento nella seconda metà della loro carriera – l’armeno ex Manchester United, per esempio, ha messo insieme otto gol e altrettanti assist in 18 partite stagionali. Entrambi sono giocatori diversi rispetto al loro prime atletico: il loro gioco adesso non è più fatto di strappi e ripiegamenti difensivi, ma si sviluppa attraverso linee di passaggio diagonali e articolate, tracce usate per connettersi con i compagni di squadra, oppure per guadagnare metri di campo. Giocando nel mezzo spazio alle spalle di Dzeko, e non ai lati della prima punta, sono più presenti nella manovra, non rischiano di astrarsi dal gioco (a entrambi capitava spesso in passato), e non sempre sono costretti a inseguire i terzini avversari quando spingono. In più la loro posizione facilita anche il lavoro di Dzeko spalle alla porta, che forse ha la coppia di trequartisti più adatta a dialogare con uno dei migliori centravanti della Serie A nel gioco di raccordo sulla trequarti.
Azioni personali, dialoghi nello stretto, inserimenti e altre cose belle di Henrikh Mkhitaryan in questa stagione
In questo sistema l’ampiezza è garantita dagli unici due giocatori nominalmente schierati sulle fasce laterali, Spinazzola e uno tra Karsdorp e Bruno Peres, e qui il lavoro di Fonseca si è concentrato nel nascondere i loro difetti: Spinazzola, ad esempio, è uno dei migliori calciatori della Roma – forse anche uno dei miglior esterni del campionato – in questa prima parte di stagione, ma rimane un giocatore che perde efficacia se costretto a lunghe fasi di difesa posizionale, inoltre non è abituato a battere tracce interne con i movimenti senza palla. È un esterno lineare proprio perché il suo gioco, sul binario sinistro, non contempla passaggi da regista laterale o invasioni improvvise della fascia centrale del campo, ma una ripetizione infinita e sfiancante di duelli individuali con il diretto avversario. E il sistema disegnato da Fonseca è pensato proprio per liberare campo davanti a lui, e non costringerlo a triangolazioni troppo articolate.
Lo stesso vale per i centrali di difesa. In fase di possesso l’obiettivo primario è togliere il pallone dai loro piedi prima che arrivi la pressione avversaria, cercando subito una verticalizzazione sugli elementi più creativi e con maggior playmaking della squadra, Senza palla, invece, la Roma fa densità centrale per schermare le linee di passaggio verticalie cerca di mantenere un blocco non troppo basso perché i suoi centrali preferiscono muoversi lontano dall’area di rigore, magari difendendo in avanti, piuttosto che in zone più arretrate dove non brillano per tecnica difensiva e decision making.
Con tutti questi cambiamenti, Fonseca ha smentito chi lo aveva presentato al calcio italiano come un allenatore integralista: ha dimostrato di sapersi adattare a una squadra che non può essere dominante come lo era lo Shakhtar in Ucraina, non ha cercato di forzare i giocatori alla sua idea di calcio, ma ha voluto modellare il sistema sul materiale che aveva e ha a disposizione. Forse è stata una scelta necessaria: in rosa ci sono molti elementi con limiti evidenti, costringerli a uscire dalla loro comfort zone probabilmente non avrebbe pagato grossi dividendi. Partendo da tutte queste considerazioni, resta però da capire quanto margine di crescita ci sia per la rosa giallorossa, per l’impianto di gioco costruito da Fonseca. Nei prossimi mesi ma anche nei prossimi anni, però, la Roma ha bisogno di andare oltre questa versione di sé, deve poter aggiungere qualcosa su queste fondamenta.
In attesa di capire cosa potrà fare e quanto potrà investire la nuova proprietà – magari aspettando una offseason meno compressa e immiserita di quella del 2020 – la società giallorossa dovrà costruire la sua (nuova) immagine e le sue ambizioni partendo dal campo, migliorando i risultati delle ultime due stagioni che l’hanno vista esclusa dalla Champions League. Deve farlo anche per dare una ricompensa, o meglio un segnale di progressione, a Fonseca. Il tecnico portoghese, del resto, ha dimostrato di meritare un’occasione di questo tipo: ha condotto la squadra con mano sicura nel periodo di transizione societaria, ha sempre trovato una soluzione efficace a tutti i problemi derivati dal mercato, dagli infortuni, dall’ambiente, ha convissuto con le voci sul suo esonero e, anzi, ne è uscito addirittura rafforzato. Fonseca, poi, ha fatto tutto questo mantenendo senza perdere mai la voglia di sperimentare, di innovare: la Roma non è mai stata ferma, volta per volta ha dato l’impressione di offrire la miglior versione di sé, almeno in quel preciso momento. Magari costruire l’ennesimo nuovo progetto partendo da qui, da lui, potrebbe essere il modo giusto per affrontare il futuro, per continuare a crescere e provare a spostare più in là quei limiti su cui i giallorossi hanno sbattuto negli ultimi due anni. Gli stessi limiti su cui stanno sbattendo ancora, proprio ora, nonostante il buon lavoro di Fonseca.