Le follie dell’Imperatore Preziosi

Breve storia farsesca della presidenza del Prez, tra valigette di contanti, bidoni clamorosi e girandole di allenatori.

Può sembrare irreale, ma c’è stato un momento in cui gli stessi gentiluomini che oggi, prima di chiudere il post coi saluti di rito («Un grosso grasso Doria Merda a tutti»), augurano al loro presidente un’agonia lunga e possibilmente tormentosa, sì, quegli stessi gentiluomini stravedevano per Enrico Preziosi.

Erano i primi anni Duemila, e dopo decenni di gestioni sempre più vernacolari, con la squadra iscritta al campionato di C1, l’arrivo di quell’imprenditore di successo relativamente giovane, che dopo ogni vittoria in casa si faceva una corsetta sotto la Nord alzando i pugni al cielo, faceva delirare la Nord stessa. Quantomeno, lo spacciatore di Gormiti sembrava la figura ideale per traghettare il Genoa Cricket and Football Club dal paesaggio di felci e vulcani in cui lo aveva rilevato – e dove ancora si aggiravano indimenticabili predatori alfa  come i Rozzi e gli Anconetani – a un futuro  che, già si intuiva, sarebbe appartenuto a uomini d’affari di Singapore o Wichita, usi seguire i match con la serietà cui è costretto chi tenta invano di decifrare le regole di un gioco arcano.

L’illusione è durata un paio di campionati. Anzi, si è consolidata quando il Rastignac di noialtri sfigati ha messo in mostra un olfatto di per sé fuori dal comune, costruendo la sua prima vera squadra intorno a un giocatore su cui nessuno prima di lui aveva scommesso un fiorino – Diego Alberto Milito. Per poi crollare – l’illusione – quando all’ultima giornata di un campionato di B per certi versi trionfale, quello che tutti orgogliosamente chiamavano il Joker era ricorso a un espediente che persino i predatori alfa di cui sopra avrebbero considerato, quantomeno, troppo ingenuo: la valigetta di contanti, consegnata in un parcheggio all’emissario della squadra ospite.

La conseguenza più apprezzabile – ma, comprensibilmente, poco apprezzata – dell’alzata d’ingegno del Joker non era stata tuttavia la retrocessione di due categorie in sé, ma l’atmosfera di quel luglio in cui su Pegli, dove il Genoa si allena,  aleggiava lo spettro di Eugène Ionesco. A dirigere una squadra costruita in fretta e furia per aspirare alla Champions, ma consapevole che a fine mese sarebbe stata riportata in C, c’era Francesco Guidolin, che nella circostanza deve avere finalmente capito perché, da quando lo ha scoperto, non faccia che leggere e rileggere Vita e destino. Ai primi di agosto avrebbe comunque fatto le valigie anche lui, lasciando la squadra a un glorioso, e peraltro adorabile, trasfuga degli album Panini: Giovanni Vavassori.

Garantito un rapido e molto preteso ritorno in B («Anemu via/da stu belin de categoria», recitava uno striscione esposto all’ultima giornata), Vavassori era stato elegantemente accompagnato all’uscita, come del resto, essendo un uomo molto saggio, già sapeva sarebbe successo. Anche se nessuno poteva riconoscerla, era l’ouverture di un’epoca per una metà luminosa e per l’altra catastrofica, tutta segnata dal singolarissimo rapporto del Joker coi vincenti: e con nessuno come il conducator in entrata, Gian Piero Gasperini.

Dieci anni fa iniziava la prima avventura di Ballardini con il Genoa. Qui, nel settembre 2010, il suo primo allenamento.

Non rifaccio tutta la lunga storia dei Gasp Uno e Bis, passata per una qualifica in Europa League annullata – in quanto, ehm, la Uefa non aveva ritenuto il Genoa all’avanguardia nel fair play finanziario – e conclusa come solo il Joker avrebbe potuto: con Percassi prima invitato, poi supplicato, poi pagato perché portasse via da Genova l’allenatore italiano più intelligente, creativo e anche divertente da non so quante generazioni a questa parte. Ma gli anni – per lunghi tratti meravigliosi – di Gasp sono anche quelli il cui il Prez, oltre a cambiare nomignolo, manifesta sempre più apertamente la sua indifferenza per il disgraziato chiamato a sedere in panchina (del quale lascia si occupi la gradinata), e si abbandona con voluttà incrementale alla sua passione predominante: il mercato.

Non so bene che percezione si abbia all’esterno, delle strategie di mercato del Prez. A ogni sessione, persino gli umori della piazza finiscono per farsi guidare dai titoli degli ultimi giorni, roba immancabilmente del tipo “Genoa scatenato”, “Preziosi Re del Mercato”, e via delirando. La realtà è, da una quindicina d’anni, molto diversa, e chi i frutti di quelle settimane di fuoco poi se li vede in campo la conosce bene. Il Prez ha una tattica chiara, spulciare fra le offerte last minute (specie nella nicchia Combattenti & Reduci, con una netta preferenza per i secondi, non importa se usciti da odissee chirurgiche o fallimenti di altro tipo), e un obiettivo ancora più chiaro, realizzare la maggior quantità possibile di plusvalenze, possibilmente nella sessione di mercato successiva. È un giochino che riesce in modo superlativo in qualche caso (Borriello, Pavoletti, Niang, Suso) e fallisce in innumerevoli altri. Ma soprattutto spiega perché, uno dopo l’altro, allenatori a loro volta spesso all’ultima spiaggia (e in quanto tali, poco inclini a piantar grane) si vedano costretti a mettere in campo una squadra indecente, a settembre, e una completamente diversa, ma poco meno impresentabile, a gennaio. Sempre che ci arrivino.

Ed eccoci all’unico personaggio tragico, e in quanto tale piuttosto amato, di questi anni: Davide Ballardini, che da 48 ore ha assunto la sua reggenza numero quattro, superando nel lessico popolare dorotei e morotei dei tempi d’oro, che in genere si fermavano al suffisso – ter. Zio Balla – mi spiace, a Genova lo chiamano così – ha avuto una rispettabile carriera prima del Genoa, e una completamente diversa al Genoa, del quale fa parte da vari anni: col ruolo di salvatore della patria, da cui discende l’attribuzione di un legame di parentela onorario con la tifoseria. Nei tre casi precedenti è subentrato a disfatta imminente, trasformando ogni volta un’accozzaglia di derelitti in qualcosa di vagamente somigliante a una squadra agonistica, e riuscendoci con doti elementari, quindi rare: intelligenza, buon senso, e la capacità di istillare nei cialtroni che infestano da lustri il nostro libro paga un minimo di ardore.

Difficile capire che allenatore avrebbe potuto essere, il Balla, se non avesse cambiato mestiere. Oggi infatti fa l’allenatore del Genoa, che è un ramo d’attività diverso, cui si applicano criteri di valutazione anomali. Da parte di tutti, e segnatamente del Líder Maximo, il quale al momento dell’ultimo licenziamento – particolarmente inspiegabile, dopo una salvezza comoda e un ottavo posto nel campionato in corso – congedò il partente con una di quelle etichette che restano: «È scarso».  Non era l’ultima villania del Prez, come è parsa a tutti, bensì la sua ultima magia: sapendo che il poveruomo avrebbe potuto tornargli utile in un futuro anche prossimo, con quell’epiteto aveva fatto in modo di toglierlo dal mercato.

E siamo a ieri. Da decenni ci ripetono che nella Storia le tragedie ritornano come farsa, ma stiamo ancora aspettando qualcuno che ci spieghi sotto che forma si ripresentano le farse. Quella di quest’anno, posso garantirlo, fa meno ridere delle altre. È cominciata con l’avvento dell’ennesimo ganassa di passaggio, Daniele Faggiano, uno degli uomini più inclini ai contati con la stampa del calcio di questi anni, che pure ne produce in numero soddisfacente. Uno dei più temerari, anche. Dopo essersi a lungo autoaccreditato come plenipotenziario – la qualifica di DS parendogli, evidentemente, diminutiva – Faggiano ha messo in fila vari capolavori, e proprio nel ramo pubbliche relazioni, fra i quali spicca l’esclusione dalla rosa dell’unico giocatore in grado di garantire una qualche coordinazione fra cervello e arti inferiori, e cioè Lasse Schöne. Faggiano ha perseverato, inanellando fra una dichiarazione e l’altra una serie di pateracchi che hanno portato, ineluttabilmente, alla sua cacciata. Nel frattempo, agli ordini di una coppia strana fin dal nome (se uno è il secondo di Maran, non dovrebbe chiamarsi Maraner), gli undici inetti di volta in volta messi in campo hanno perso sempre e comunque, e da chiunque. Il che sarebbe stato persino accettabile, essendo successo a infinite versioni precedenti del Genoa. Le quali però avevano quasi sempre due tratti che le rendevano imparagonabili a questa: erano in grado di arrivare a tre passaggi consecutivi, e riuscivano a superare la propria metà campo una media di volte superiore alle attuali due per partita.

Qua siamo, alla vigilia dell’insidioso derby con lo Spezia – ma non chiamatelo mai così con un genoano, se volete risparmiarvi un tedioso ditirambo su rapporti fra La Superba e le sue colonie. Impossibile intuire come finirà, e non solo la partita di stasera. All’incertezza, devo dire, noi folli siamo abituati, e anche alle allucinazioni: da inizio millennio viviamo il campionato convinti di star dentro al Giorno della locusta, e all’ultima giornata scopriamo che in realtà era quello della marmotta. Ecco, credo che se il Balla riuscisse anche solo a cambiare script sono sicuro diventerebbe, agli occhi di tutti noi, la miglior approssimazione possibile a un eroe.