Il mistero di Marina Granovskaia

Gestisce il Chelsea per conto di Roman Abramovich, e questo fa di lei una delle donne più potenti dello sport mondiale; ma è anche una persona riservata, sempre attenta a non esporsi, a non mostrarsi.

Il potere logora chi parla troppo. Non ci meraviglierebbe se la massima, dal vago sapore andreottiano, facesse bella mostra di sé in un prestigioso ufficio nel Surrey, contea sud-orientale del Regno Unito: lì si trova Cobham, la cittadina dove nel 2004 Roman Abramovich trasferì il quartiere generale del Chelsea, il club acquistato l’anno precedente per l’allora cifra record di 140 milioni di sterline. Prima, la squadra si allenava a Londra. Il trasloco mise a fuoco un aspetto dominante del magnate russo: il sacro rispetto per la riservatezza e la discrezione.

E lì, a Cobham, ha oggi sede l’ufficio personale di Marina Granovskaia: la donna che da anni incarna il Chelsea. Potremmo anche dire “la donna che da anni è il Chelsea”: chief executive dal 2014, se proprio dobbiamo attenerci a una qualifica. Le prime citazioni della stampa britannica la definivano owner’s personal aid e poi personal assistant di Roman Abramovich. In Italia sarebbe stata la segretaria particolare. In realtà, è sempre stata molto più di una semplice segretaria. Era, ed è, lo schermo attraverso cui Abramovich entrava, ed entra, in connessione con la realtà. La persona in grado di convertire e riassumere il mondo esterno in brevi e particolareggiate frasi che offrono un sintetico ed esaustivo quadro della situazione. Caratteristica fondamentale per chi ha nel Dna il proverbio “il tempo è denaro”. Lo conosce come pochissimi altri. Tra i suoi dipendenti in Russia, Abramovich scelse lei quando decise che era giunto il momento di trasferirsi da Mosca a Londra per un’operazione, l’acquisto del Chelsea, che è da inquadrare nella fase espansiva di Putin. E di quella scelta non si è mai pentito.

Marina Granovskaia entra nell’organigramma Chelsea nel 2010, quando ha 35 anni. L’esordio ufficiale fu l’acquisto, in nome e per conto di Abramovich, di Fernando Torres. Fu ancora lei a contattare Rafa Benítez quando il capo considerò chiusa l’esperienza di Villas-Boas, la sera stessa della sconfitta a Napoli nel 2012. E fu lei, racconta il Times, a prendere atto che Benítez considerava non alla sua altezza una proposta di lavoro di soli quattro mesi. Così nacque la favola di Roberto Di Matteo, il carneade che può vantare nel suo curriculum una Champions League.

L’anno dopo, avendo compreso che con Marina è sempre meglio prendere che lasciare, Benítez quel ruolo di traghettatore lo accettò. Granovskaia, però, c’era anche prima del 2010. E quella Champions – l’unica del club – porta anche la sua firma. Fu lei, nel 2009, all’indomani dell’Iniestazo, a convincere Abramovich a non lasciarsi prendere dallo sconforto e a non vendere Didier Drogba. Al termine di una delle sconfitte più ingiuste della storia del calcio, che ricordò al calcio chi era l’arbitro Ovrebo e portò Guardiola a vincere la sua prima Champions col Barcellona, il club aveva ormai deciso che la storia con l’ivoriano era giunta ai titoli di coda. A lei avrà pensato Abramovich quando, all’88esimo della finale col Bayern, con un magnifico colpo di testa, proprio Didier Drogba segnò il gol del pareggio.

In questa foto, Didier Drogba ha appena realizzato la rete del pareggio nella finale di Champions League 2012, contro il Bayern Monaco: è uno dei 164 gol realizzati al Chelsea in 381 gare ufficiali, decisamente il più importante (Laurence Griffiths/Getty Images)

A Cobham, Granovskaia ha il suo quartiere generale enfaticamente definito dai giornali inglesi «un fortino inaccessibile». Lavora un numero imprecisato di ore al giorno. Con la solita scarsa fantasia che contraddistingue una certa narrazione dai toni maschilisti, è soprannominata zarina, lady di ferro e simili banalità che vogliono ancora oggi evidenziare la singolarità nel trovare una donna in un posto di potere. Per giunta nel calcio. Non ha mai rilasciato un’intervista. Come Enrico Cuccia, signore del sistema bancario italiano. Così come Abramovich, non ha mai espresso un commento di natura politica. Una volta, mandò in tilt i giornali del Regno Unito: fu annunciata la sua partecipazione a un convegno. Era uno scherzo. Nella sua stringata e iper-controllata biografia su Wikipedia, ci tiene alla definizione del Times: «La donna più potente del calcio mondiale». Nel 2017, ha chiuso con Nike un accordo storico che assicura al Chelsea 60 milioni di sterline all’anno fino al 2032. Nel 2018, Forbes l’ha considerata la quinta donna più importante nello sport mondiale. A giugno del 2020, il giornale indonesiano Jawa Pos l’ha definita, di fatto, l’erede di Adriano Galliani. Il quotidiano, che tira 842mila copie, è andato alla ricerca del nuovo re del calciomercato. E, dopo aver nominato Monchi, si è soffermato su di lei. In comune con Galliani, ha il ruolo di prediletta del re. Da Berlusconi ad Abramovich. Consigliera che poi, proprio come l’illustre geometra, ha saputo rendersi autonoma.

«Non ti chiamerà mai per un accordo nel cuore della notte. Risolverà ogni controversia durante l’orario di lavoro, chiudere un affare con lei è un’esperienza che ricordi con piacere. Non altera la realtà, non promette quel che non può mantenere. Quando dice no, è no». È la testimonianza di un procuratore, riportata per inquadrare il personaggio. Granovskaia ama giocare a carte scoperte. Non indulge in sentimentalismi. Non escogita trucchetti nel corso di una trattativa. Il suo obiettivo è sempre la ricerca del punto di equilibrio in grado di offrire un’utilità a tutte le parti in causa. Se si trova, allora l’affare si fa. Altrimenti ciao e amici o sconosciuti come prima. È ormai leggendario il modo in cui informò John Terry della proposta che non avrebbe mai potuto rifiutare. «O accetti questa cifra per il rinnovo, oppure te ne vai a…». Il capitano firmò.

Granovskaia, al Chelsea, ha portato la sua rivoluzione. Ha trasformato il modus operandi del club sul mercato. Non più la classica smargiassata alla Abramovich: “Quanto costa? Ecco, tenete il resto”, ma una politica che tenesse conto del fair play finanziario e dei vincoli di bilancio di una società considerata un tempo senza limiti di spesa. È anche questo suo pragmatismo che ha spinto Abramovich, nel 2014, a incassare con serenità l’addio dell’amministratore delegato Ron Gourlay. Sapeva di avere in casa la degna erede. Così come, anni dopo, nel 2017, è sopravvissuto all’addio del direttore tecnico, Michael Emenalo, considerato l’uomo fondamentale del calciomercato dei Blues. Granovskaia è laureata in Lingue alla Moscow State University. Ne parla svariate. Chi la conosce bene sostiene che quando è davvero infuriata, impreca in russo. Lei, che ha origini canadesi e che ha frequentato una sorta di Dams russo. Quotidiani anche autorevoli hanno riportato dichiarazioni di una sua ex insegnante che ha preferito rimanere anonima. Non ne ha tessuto le lodi, l’ha dipinta come una grigia studentessa. Chissà, forse per invidia. Dicono che ami il sushi. Di certo è cliente del Mayfair, celebre ristorante di Mosca che ha una sede a Londra. E, pur non disdegnando la cucina vegetariana, ha un debole per la celebre carne giapponese Wagyu.

Kai Havertz è il giocatore più costoso nella storia del Chelsea, e quindi anche dell’era-Granovskaia: nell’estate 2020, il club londinese ha versato 80 milioni di euro al Bayer Leverkusen per rilevare il suo cartellino (Glyn Kirk/Pool via Getty Images)

In privato, Carlo Ancelotti parla bene di lei. Ai suoi tempi al Chelsea, era ancora l’ombra di Abramovich, eppure spiccava per serietà e scrupolosità. Comprendeva al volo le situazioni e lavorava sempre per la soluzione più efficace possibile. L’ideale per il leader calmo definito “feng shui” da sua moglie, sempre proteso alla ricerca del lato costruttivo e positivo. Non altrettanto si può dire di Antonio Conte, i cui rapporti con Marina si sono incrinati molto presto. Difficilmente la signora del Chelsea avrebbe tollerato uno sfogo come quello della scorsa estate nei confronti della dirigenza dell’Inter. E non perché Granovskaia non sappia incassare o attraversare mari agitati. Le è capitato più volte di dover prestare il suo volto a una figuraccia del club. Sa che rientra tra i compiti che le sono richiesti. Quando il Chelsea si è trovato coinvolto in un caso di pedofilia – sia pur precedente all’era Abramovich – ha scelto che sarebbe stato più redditizio comprare quel silenzio. O, ancora, quando al club è stato proibito il mercato in entrata per un anno a causa dell’acquisto illegale di calciatori under 18.

O, siamo forse al caso che più di tutti le avrebbe potuto nuocere, la causa che il medico sociale Eva Carneiro intentò contro il club per il mobbing sessista di José Mourinho. In tribunale il Chelsea venne condannato e pagò. L’immagine di Granovskaia, però, non ne uscì offuscata. Non ne emerse come la donna di potere che rinnegò la solidarietà di genere. Al processo, la difesa rese pubblici gli sms che lei inviò alla dottoressa la sera stessa del fattaccio, dopo la partita contro lo Swansea, quando Mou le riversò addosso frasi poco carine rivolte alla madre. «Tutti sanno che non hai fatto nulla di male. Le persone che conoscono José, sanno che sta farneticando. Non penso che esista uno stipendio talmente alto da consentire simili attacchi in pubblico. Ma», aggiunse negli sms, «mi raccomando, non scrivere nulla sui social». Carneiro, invece, disobbedì: ringraziò i tifosi sui propri profili, e da quel momento Granovskaia la considerò fuori dal club. E così fu. L’azienda viene prima di tutto. Ne sa qualcosa lo stesso Mourinho. Fu lei a spendersi per il grande ritorno nel 2013, dopo la prima esperienza tra il 2004 e il 2007. Eppure, dopo la Premier vinta due anni dopo il suo secondo approdo a Stamford Bridge, il clima non era più sostenibile. Lo Special One era diventato un problema. E venne messo alla porta.

Il primo rapporto lavorativo tra Marina Granovskaia e Roman Abramovich risale al 1997; si è trasferita in Inghilterra nel 2003, quando il magnate russo ha acquistato il Chelsea (Adrian Dennis/AFP via Getty Images)

In tutti questi anni, Granovskaia non ha mai smarrito la sua dote principale: saper fotografare perfettamente una situazione ed essere in grado, nel minor tempo possibile, di elaborare le mosse per liberarsi da quella situazione. Come a scacchi, gioco sacro per i russi: dove il silenzio impera. Granovskaia è una sorta di Harvey Keitel di Pulp Fiction, il Signor Wolf, il pulitore. Ma è molto di più: perché lei risolve, pulisce e poi passa alla costruzione. Talvolta sbagliando come quando, nel tentativo di convincere Courtois a rimanere, si è fatta sfuggire Alisson e ha ha finito per sborsare l’importo della clausola per acquistare Kepa, oggi relegato in panchina da Lampard. Succede anche a lei.

Le sconfitte si incassano in silenzio, come le vittorie. I bilanci, per essere attendibili, hanno bisogno del concetto di lunga durata. Non può che ragionare così una donna che a 29 anni non sapeva niente del calcio, era l’ombra del capo e che, sedici anni dopo, è la leader indiscussa di uno dei più potenti club del mondo. Non abbiamo mai scritto che Marina Granovskaia è anche una donna affascinante. Non lo abbiamo fatto semplicemente perché è un dettaglio ininfluente.

Dal numero 35 di Undici