Quali sono gli atleti che ci hanno colpito di più nell'anno che sta finendo?
Il 2020 è stato un anno complesso, inatteso, ovviamente in senso negativo. Lo sport si è prima fermato, poi ha dovuto inventare dei nuovi modi per sopravvivere, per continuare a esistere. L’assenza di pubblico è stata – ed è ancora – il prezzo più caro da pagare alla pandemia, poi ci sono stati cambi di regolamento, di format, posposizioni di eventi importanti – si pensi solo a Giochi Olimpici estivi ed Europei di calcio. Eppure ha continuato a essere parte della nostra vita, una distrazione, un piccolo sollievo in un periodo così difficile per tutti. Anche per questo, abbiamo voluto celebrare di alcuni grandi personaggi e imprese sportive del 2020. In questa lista non ci sono necessariamente i migliori, non solo e non tutti quelli che hanno vinto, piuttosto ci sono gli atleti che ci hanno colpito in maniera particolare, per la loro forza, il loro carisma, per la promessa di un grande futuro.
Zlatan Ibrahimovic
Ibrahimovic nel 2020 non è solo un campione che sconfigge il tempo, uno che non invecchia o che se pure invecchia resta fortissimo perché ha scoperto un modo per fregare la biologia. Tra gennaio e dicembre Ibrahimovic è stato un atleta – non solo un calciatore – fenomenale: un attaccante troppo completo per essere marcato, un compagno di squadra che cambia lo spirito dello spogliatoio, un leader tecnico, emotivo, carismatico in ogni momento.
Ibra è tornato in Italia un anno fa, è arrivato a gennaio in un Milan insicuro, fragile, piccolo, una squadra che non aveva pregi, o comunque se ne aveva li nascondeva molto bene. A fine anno, dopo 14 giornate, il Milan è primo in classifica. Ibra non ha fatto tutto da solo e non cancella i meriti di Pioli, Theo, Calhanoglu, Donnarumma. Ma la curva di rendimento dei suoi compagni di squadra ha un ante Zlatan e un post Zlatan: con lui il Milan ha trovato un senso, ha trovato equilibrio, e quel piacere nel giocare a calcio che è anche il piacere che si prova nel guardare Ibrahimovic spostare di peso i difensori avversari, controllare palloni ad altezze improbabili, muoversi fra le linee, segnare 22 gol – tutti diversi – in un anno solare. Un giocatore uguale solo a se stesso, a venti, trenta o quaranta anni. (Alessandro Cappelli)
Lewis Hamilton
A novembre 2018 l’account della Formula 1 twittava che dal 2014, cioè dall’inizio dell’era turbo-ibrida, Lewis Hamilton aveva vinto il 50% delle gare disputate. Un dato impressionante, migliorato dalle 24 vittorie nei successivi 40 Gran Premi – 39 se escludiamo il GP di Sakhir saltato causa positività al Covid – e che racconta come, ben al di là dello strapotere tecnico della Mercedes, Hamilton abbia cannibalizzato la massima espressione del motorsport, riducendo tutto a una questione di quando e come vincerà: la gara, il titolo, il confronto con compagni di squadra e gli avversari. L’idea stessa di competizione è stata mortificata da questo dominio assoluto e a tratti persino desolante, e così si è scelto di farlo correre contro i fantasmi del passato, i fantasmi di Senna e di Schumacher, nella speranza di ricondurre tutto al solito discorso della macchina più importante dell’uomo.
In realtà guardare una gara di Hamilton, oggi, significa ribaltare questa prospettiva: perché se non è la prima volta che un grande campione può contare sul mezzo migliore, è la prima volta che questo connubio si traduce nel concetto stesso di perfezione che Hamilton esprime con la sua guida robotica, che non ammette distrazioni, debolezze, emotività. Tra l’Hamilton degli esordi, aggressivo, sprezzante, incline all’errore nei momenti decisivi, e l’Hamilton di oggi, glaciale, efficace, che non sbaglia mai ci sono 13 anni e sette titoli mondiali, ovvero ciò per cui è degno di correre contro quei fantasmi, e magari batterli. Mentre tutti noi eravamo impegnati a cercare i motivi per cui non potesse farlo. (Claudio Pellecchia)
Nicolò Barella
Se c’è una cosa che stupisce di Nicolò Barella è quanto poco finisca sulle copertine dei media di settore. Forse c’entra la sua riservatezza, la sua timidezza di ragazzo che è l’unica cosa da ventenne che ancora si porta appresso. Stupisce, in un momento storico di attaccanti modesti, di numeri dieci che sembrano dei nove e mezzo, perché per età, qualità, carisma, intensità, Barella è – insieme a Donnarumma – il miglior calciatore italiano contemporaneo. Un calciatore dalla foggia antica, adulto da subito: il matrimonio a 21 anni, due bimbe per casa, un terzo in arrivo. Prendersi tutto e prenderselo in fretta.
L’Inter si accende con le fiammate di Lukaku, ma è Nicolò che tiene in piedi la baracca per 95 minuti, tre volte a settimana. Centrocampista box to box, eccellente ruba palloni, capace di strappi di 40 metri palla al piede, cambi di gioco precisi al millimetro, tiri dalla distanza. Quando l’Inter è in difficoltà, Conte lo sposta dove c’è bisogno: davanti alla difesa se la difesa traballa, dietro le punte se è lì che serve dinamismo. Ovunque fa la differenza. Ha dominato la semifinale di Europa League, ha preso il Real a colpi di tacco, a Madrid. Aspetta soltanto un allenatore che lo liberi davanti alla porta. (Nicola Muscas)
Wout van Aert
Ogni anno la NFL assegna un premio di comeback player of the year al miglior rientrante da un infortunio. Se dovessimo farlo nel ciclismo, nel 2020 il premio al miglior comeback finirebbe al miglior corridore dell’anno. Una stagione svoltasi in tempi indefiniti: interrotta, rinviata e ripresa, compressa allo spasimo in poche settimane e poi ri-dilatata, ha finito per concretizzarsi nelle gambe e nel ciuffo di chi un anno fa il tempo lo stava guardando fuggire via.
Il 2020 di Wout van Aert è un corollario di risultati prestigiosi ma soprattutto di sorprendente crescita. Cominciato timidamente prima del Covid-19, a sei mesi dal terribile infortunio del Tour 2019, è decollato alla ripresa. Primo agosto e 27 dicembre, basterebbero la prima e l’ultima corsa del van Aert post-pandemico per comprenderlo. Due giornate di sofferenza. Una tra l’afa e gli sterrati della Strade Bianche, l’altra nella bufera e nel fango del ciclocross di Dendermonde. Due vittorie con la faccia sporca, raggiunte tramortendo i rivali e il dolore, la specialità di un corridore che non nasce fenomeno ma che quando c’è da soffrire non è il migliore del mondo. Sì, in Wout van Aert c’è tutto il 2020. Welcome back. (Filippo Cauz)
Jimmy Butler
Jimmy Butler è il mio personaggio sportivo preferito del 2020, e sottolineo 2020: perché in un anno che ci ha obbligato a rinunciare a gran parte delle nostre abitudini, rendendoci la vita difficile e irta di ostacoli come non mai, Butler, attraverso il suo basket, ha rappresentato una specie di guru spirituale che guida il nostro cammino – non importa quante complicazioni troverai lungo il tuo percorso, continua a fare quello che senti dentro. E infatti i miei momenti preferiti di Jimmy – che poi, per inciso, è un simpaticone, su Youtube lo trovate persino a impastare le pizze – non sono quelli trionfali che hanno condotto Miami alle Finals, ma proprio la serie finale contro i Lakers: una serie, diciamolo, nata e progredita sotto i peggiori auspici per gli Heat, costretti a rinunciare totalmente o parzialmente a due punti fermi come Dragic e Adebayo e decisamente in difficoltà contro LeBron e compagni. Lo stesso Butler, nello showdown decisivo, si è presentato fisicamente a mezzo servizio, e in mezzo a questo oceano di complicazioni la vittoria dei gialloviola, e si capiva abbondantemente dopo già due partite, era bella che scolpita nella pietra.
Pazienza: Jimmy se n’è fregato, ha giocato sul dolore e lo ha fatto come se nulla fosse, ha continuato a impilare punti su punti, e c’è tutta gara 5, quando i Lakers hanno già praticamente imbandito la tavola con lo champagne, dove Butler ormai neanche ci pensa più a tutto il contorno, le Finals, la bolla di Orlando, i Lakers e i suoi compagni incerottati, ma ingaggia una battaglia con il canestro, e con il canestro soltanto, e segna a ripetizione, ed è la più aulica e nobile espressione di amore verso il proprio sport, e verso il proprio destino, anche quando è cinico e beffardo. (Francesco Paolo Giordano)
Benedetta Pilato
Benedetta Pilato è l’emozione di vedere nascere una fuoriclasse davanti ai nostri occhi. Come quando Tomba vinceva le prime gare con il pettorale 24. A 13 anni e mezzo, si presentò ai campionati italiani in vasca corta e arrivò seconda. Lei che va ancora a scuola, a Taranto dove non c’è una vasca olimpica per allenarsi. Lei che ha il sorriso delle adolescenti. Non è per niente diva. Ma che, come ogni fuoriclasse, sa quanto vale. Federica Pellegrini, una che se ne intende, disse qualcosa che suonò più o meno così: «Sa benissimo quello che vuole, è inutile che proviamo a fare i genitori con lei». Lo disse ai Mondiali di Gwanju che furono l’esordio assoluto di Benedetta in Nazionale. Prima gara e medaglia d’argento ai Mondiali, nei 50 rana, dietro la King.
A quattordici anni e mezzo. Benedetta Pilato è tenera e disarmante. Perché non è uno di quei fenomeni di precocità, quei mostri di bravura che sembrano adulti in corpi di ragazzi. Lei è proprio una teenager che va fortissimo in acqua. “Chissà però se riuscirà a qualificarsi per le Olimpiadi sui 100, non ha la resistenza per farlo”, dissero di lei. In un anno, ha abbassato il suo limite di oltre due secondi e si è qualificata alla prima occasione. Stabilendo il primato italiano. Prima di andare in tv a ridere come una quindicenne. Una fuoriclasse normale, questa è Benedetta Pilato. (Massimiliano Gallo)
Karim Benzema
Era soltanto lo scorso marzo quando Karim Benzema, in una diretta Instagram, ha definito se stesso “un’auto da F1” e Olivier Giroud “un go-kart”. È il tipo di onestà brutale che di solito, tra sportivi professionisti di quel livello, non erutta mai così esplicitamente e che il nove del Madrid è sembrato lasciar andare con orgoglio ma senza livore. Benzema è emarginato dalla sua Nazionale nel momento in cui è la più forte del mondo, da undici anni è decisivo nel Real Madrid che ha vinto tutto forse senza mai essere celebrato a dovere – e questo probabilmente, a lui che “gioca per la gente che capisce di calcio” è interessato il giusto – ma credo che, in fondo, il 2020 gli abbia in parte reso giustizia. Per la Liga vinta da protagonista, la prima dell’era post-CR7 e soprattutto perché per la prima volta ho avuto l’impressione che nessun corpo proietti più ombra su lui.
Le sue giocate piene, rotonde, il suo modo di aprire varchi nascosti e muoversi col pallone come se stesse appoggiando i piedi sulle nuvole, non sono più inghiottiti visivamente dal modo di stare in campo sintetico e annichilente di Ronaldo, dai suoi gol e da tanti altri fattori esterni. Ogni volta che leggo uno dei tanti tweet di elogio su di lui o vedo una gif di un suo assist di tacco – e succede spesso, come non mai – mi sembra che il mondo senta un bisogno più forte di celebrarlo. Non riguarda lui, che è sempre lo stesso, ma la nostra percezione: è il tempo di Karim. (Federico Raso)
Jannik Sinner
Il tennis di Jannik Sinner è come un orologio a cucù, oppure – se preferite un’immagine meno rassicurante – una bomba a orologeria: lo vedi e lo senti ticchettare a intervalli continui, perfetti, poi all’improvviso c’è un evento di grande impatto, l’urlo dell’uccellino meccanico, la musica, un’esplosione fragorosa e stordente. Nel caso di Sinner, si tratta di una giocata che rompe gli equilibri dello scambio, di un game, della partita, è un picco di classe o di forza bruta, un’intuizione geniale e perversa, un colpo che non sapevamo potesse appartenergli, un recupero fuori da ogni logica atletica. Sono ipotesi che diventano realtà con frequenza sempre maggiore, ma che non cancellano, né tantomeno fanno diminuire, l’impressionante regolarità di Sinner, la metodicità del gioco da fondo campo, la capacità di leggere i momenti, di stare dentro la partita a livello tecnico, psicologico, emotivo. Sinner è l’Inter di Mourinho che può diventare, in alcuni momenti non isolati, il Barcellona di Guardiola; è una macchina che produce blocchi di marmo ancora da raffinare, a forma di parallelepipedo, ma che sa anche intagliare forme sinuose, elleniche, che sembrano vive.
Non abbiamo dubbi sul fatto che possa fare tutto questo pure nei prossimi anni, che possa farlo a un livello sempre più alto. Perché è nato nel 2001 e nel 2020 ha battuto Goffin, Tsitsipas, Zverev; perché è diventato il più giovane tennista italiano di tutti i tempi a vincere un torneo ATP nell’era Open (l’ATP World Tour 250 di Sofia); perché è arrivato ai quarti di finale del Roland Garros e ha perso in maniera netta ma onesta contro Rafael Nadal (7-6 6-4 6-1 per lo spagnolo), al termine di una partita in cui è riuscito a mettere in difficoltà uno degli atleti più grandiosi di sempre, uno che all’età di Sinner era come Sinner, che poi ha rispettato le aspettative della gioventù e ora è diventato una leggenda vivente. Ecco, noi non sappiamo se Sinner farà lo stesso percorso di Nadal, glielo auguriamo, per riuscirci dovrà limare i suoi pochi difetti (la scarsa varietà negli schemi, soprattutto a rete, l’efficacia al servizio), ma il fatto che abbia già mostrato di poterci provare è una notizia meravigliosa per lui, per il tennis, per lo sport italiano. Sinner è uno degli atleti più importanti del 2020 perché quest’anno ci ha detto che probabilmente lo sarà nel 2030, forse anche prima, perché lui è il futuro che ci aspetta, dobbiamo solo capire come si compirà. (Alfonso Fasano)