I trofei contano sempre meno quando si sceglie un nuovo allenatore?

Sembra che ora contino di più lo stile di gioco e soprattutto l'identità, se guardiamo a quello che hanno fatto i grandi club negli ultimi anni.

Il 2021 è cominciato rinfocolando una polemica mai sopita tra due fazioni degli appassionati di calcio, soprattutto di casa nostra: per brevità, definiamo la sfida come risultatisti versus giochisti. È stata la dirigenza del Psg a riproporre il tema: sulla panchina degli emiri traslocati a Parigi è finito Mauricio Pochettino, l’uomo che ha portato il Tottenham alle soglie del paradiso con la finale di Champions perduta contro il Liverpool di Klopp. Mentre Massimiliano Allegri è ancora a piedi, e siamo alla seconda stagione senza lavorare. Restano irrilevanti le notizie che accreditano Allegri di richieste esorbitanti – 12 milioni di euro per guidare l’élite del calcio francese. Contano i fatti. E i fatti dicono che per provare a fare il grande salto, ossia provare a conquistare la Champions, il Psg ha scelto un allenatore dal curriculum immacolato, e non il tecnico che ha vinto cinque scudetti consecutivi con la Juventus e l’ultimo tricolore della storia del Milan. Due anni e mezzo prima, gli emiri avevano fatto una scelta simile, mettendo in panchina Tuchel – che aveva vinto solo una Coppa di Germania al Dortmund.

È l’ennesima conferma – è il pensiero trionfante dei giochisti – che l’albo d’oro non conta, o non conta più, che oggi sono altri i parametri in base a cui i grandi club individuano i loro allenatori. In parte è vero, ma non sempre le decisioni dei grandi club sono prese in base alla qualità del gioco espresso in passato dei tecnici scelti. Perché se Pochettino può essere considerato un allenatore fatto e finito, da cui sai cosa aspettarti, non altrettanto si poteva dire degli allenatori messi sotto contratto da grandissimi club come Bayern Monaco, Barcellona, e anche Manchester United. Tre scelte – Flick, Koeman e Solskjaer – che hanno in comune una caratteristica: ancor prima dell’albo d’oro, quel che un top club sembra reputare imprescindibile è il senso di appartenenza, la condivisione di una filosofia. Tre scelte che dovrebbero aprire una riflessione tra le fazioni contendenti. È come se nel frattempo, mentre noi ci attardiamo in questa disputa concettuale, nel resto d’Europa, nell’Europa calcisticamente più ricca, si è cominciato a ragionare in altro modo. Anche se, in ogni caso, la radice resta Guardiola. Pep c’è sempre, quando si parla di qualità del gioco e anche quando si parla di appartenenza. È lui il punto di frattura del calcio nel ventunesimo secolo.

In effetti Flick, Koeman e Solskjaer non possono essere accomunati a Pochettino, se guardiamo all’albo d’oro. Tutti e tre avevano vinto qualcosa, senza peraltro nemmeno sfiorare l’etichetta di grande allenatore: Flick aveva vinto da vice commissario tecnico della Nazionale tedesca, Koeman in Olanda e col Benfica e col Valencia, e Solskjaer nel modesto campionato norvegese col Molde. Di certo nessuno dei tre è stato scelto in base al curriculum. A uso e consumo della polemica italiana, a Flick può essere attribuita la medaglia per la disputa avuta al Salisburgo con Trapattoni (con cui collaborava) per il suo eccessivo difensivisimo. Ma è un dettaglio. È stato per dieci anni il vice di Löw, e ha giocato cinque stagioni al Bayern. In Baviera è tornato come assistente di Niko Kovac. Esonerato il tecnico croato, il club di Rummenigge ha deciso di affidare a lui la squadra. In pochi mesi l’ha rivitalizzata e l’ha portata al trionfo europeo. Con un calcio contemporaneo, anzi all’avanguardia, anch’esso di rottura, verticale, ovviamente sfruttando le caratteristiche a disposizione, un calcio diverso da quello di Pochettino. Persino con un approccio poco tedesco. Molto si è scritto della sua capacità di dialogare con i calciatori. Anche perché, e questa è una vittoria dei risultatisti, quando si vince, va tutto bene. Dietro ogni successo si cerca un segreto o una filosofia.

Hans-Dieter Flick è stato l’ottavo allenatore subentrato a conquistare la Coppa dei Campioni/Champions League, ma soprattutto è stato il primo tecnico a vincere il Triplete dopo aver sostituito un collega nel corso della stessa stagione (Matthew Childs/Pool/AFP via Getty Images)

La storia di Solskjaer ha delle similitudini con quella di Flick. Nel momento più basso della storia recente del Manchester United, dopo aver cercato invano il successore di Ferguson, e aver appesantito il bilancio con Moyes, Van Gaal, Mourinho, con la conquista – per loro magra – di una FA Cup e di una Europa League, il club ha giocato quella che non è parsa la carta della programmazione ma semplicemente una strada che non avevano ancora imboccato (se non per una brevissima parentesi di Giggs): quella dell’identità, intesa come identificazione con la storia del club. È arrivato in panchina l’eroe di Barcellona, l’uomo che in pieno recupero regalò a Sir Alex la prima Champions della sua carriera. Solskjaer non aveva curriculum, a parte la Norvegia, né era accompagnato da iperboliche narrazioni sulle sue idee di calcio. Era semplicemente “uno di noi”. Così come lo era ed è Ronald Koeman, chiamato dal Barcellona in piena tempesta. Dopo l’umiliazione subita dal Bayern in Champions: otto gol che hanno segnato la fine tragica – calcisticamente, s’intende – di un’epoca. Il Barcellona, va detto, è sempre stato un mondo a parte. Lì la filosofia, l’appartenenza, hanno da sempre avuto un ruolo centrale. Gli allenatori del Barça sono stati scelti spesso fuori mercato: dal Tata Martino a Luis Enrique, reduce dalle incomprensioni romane. E in più la presidenza Bartomeu aveva condannato la squadra con un avvicendamento scellerato: via Valverde, accusato di eresia per aver abbandonato il 4-3-3, e dentro il dogmatico Setién, che ha accompagnato il club al disastro. Valverde è stato esonerato quando era primo in classifica. Anche qui la scelta di Koeman è legata a radici storiche: il Barcellona è andato a pescare un ex calciatore che sarà per sempre nel cuore dei tifosi, perché fu il suo destro a regalare la prima Coppa dei Campioni dei catalani e fece piangere la Sampdoria, nella notte di Wembley del 1992.

Quindi vere e proprie multinazionali, come questi tre grandissimi club, quando si ritrovano in difficoltà, scelgono la strada in qualche modo più semplice, quella che incontra meno ostacoli nel cosiddetto ambiente. Del resto lo stesso Pochettino ha giocato per due anni, dal 2001 al 2003, con il Psg. Anche la Juventus, seppure con sfumature diverse, può essere inserita in questa compagnia. Lì, però, i trascorsi sono diversi. La Juventus – geneticamente risultatista – ha provato a snaturarsi portando a Torino l’allenatore più distante che potesse: Maurizio Sarri. Si sono sopportati un anno, hanno persino vinto insieme, ma non sarebbe potuto durare. E hanno scelto Pirlo, forzando l’immagine di identificazione. E non solo quella. Al Real Madrid, che ha una filosofia di base simile a quella della Juve, l’esperimento del (nuovo) gioco, fondato su Julen Lopetegui, è durato qualche mese, prima del ritorno di Zidane. Lopetegui è tornato a piazze meno esigenti e ha anche vinto (col Siviglia in Europa League).

L’identificazione tra club e allenatore è la terza via calcistica – per dirla alla Tony Blair – nel dibattito sclerotizzato e obsoleto. Anche perché nel frattempo il calcio ha conosciuto la recessione. E si è quantomeno interrogato sul reale valore dei guru della panchina. Guardiola ha vinto tanto al City, sta provando a creare un sistema di valori – termine eccessivo ma in buona sostanza è quel che spesso ripete – ma anche lui è finito spesso in discussione (soprattutto per le eliminazioni in Champions) e più volte sottolinea che occorre tempo, tanto tempo, per tracciare un solco. Al City non può esserci appartenenza. È più difficile, perché la storia è troppo recente, la pittura è fresca. Come del resto al Psg. E come, per portare acqua al suo mulino, ripete a ogni sua dichiarazione Antonio Conte. È come se gli stessi allenatori cercassero di dire in ogni salsa che il campo è importante, sì, ma è pressoché impotente in mancanza d’altro – che potremmo definire storia e struttura aziendale.

L’esempio più interessante, anche perché in controtendenza, è probabilmente quello del Liverpool. Un club con una storia ben definita. Hanno scelto Jürgn Klopp dopo un lungo studio in cui sono stati vagliati molti profili: «Abbiamo scelto lui perché era quello più affine alle nostre caratteristiche», queste sono le parole fatte filtrare da Anfield. Klopp aveva vinto con il Borussia Dortmund, ovvero in un club non di primissima fascia, e conosceva il lavoro che avrebbe dovuto compiere. In questo caso non una scelta d’appartenenza, ma di affinità aziendale. E qui, per brevità, abbiamo escuso quegli allenatori che, grazie al loro lavoro, hanno contribuito a lanciare calciatori e quindi a irrobustire l’azienda. È come se l’albo d’oro facesse parte del curriculum, ma non fosse più il solo curriculum. Ne è diventato solo una parte.