Wayne Rooney, un’epopea tutta inglese

Perché è stato uno dei più grandi della sua generazione, e perché poteva esserlo solo lì.

Si è ritirato Wayne Rooney, di professione attaccante centrale, forward. La prima cosa che viene da dire è che tra statistiche, trofei e competizioni è filato tutto liscio. Su certi pezzi da novanta inglesi grava sempre la minaccia della letteratura del rimpianto, cavallo di battaglia del giornalismo sportivo: ma qui non c’è il lento declino alla Best, non c’è l’eclisse alla Owen, non ci sono le gambe spezzate di Gazza. Un carriera intatta, magari non benedetta da ossessioni atletiche e criogeniche, o da ansie da icona social londinese, ma intatta.

Miglior marcatore nella storia del Manchester United (253), secondo in quello della Premier (208), bomber di tutti i tempi in Nazionale (53), il primo vagito da minorenne nel 2003. Di attaccanti in attività e di passaporto inglese c’è solo Harry Kane che può rubargli lo scettro dei numeri ma non il ruolo e la fisionomia dei suoi gol. E poi ancora, i trofei: scudetti, Champions, Intercontinentale ed Europa League, per un pelo. Come lui nessun inglese della sua generazione ha giocato una finale Mondiale o di Europeo, ma this is England.

Qui finisce il quadro delle cose richieste a un attaccante («Se si discute me, è finito il calcio», aveva precisato Pippo Inzaghi in nome della categoria qualche anno prima). Poi inizia lo spazio per le cornici, sempre opinabili, scambiabili, ma è pure vero che la cornice è l’unico modo per spostare i quadri di galleria in galleria senza rovinare il soggetto. Speculare oltre non ha senso, ci si scontra con l’irriducibilità del giocatore. Fuori dalla cornice della Caduta e dello Spreco, e dentro quella di Potenza ed Esuberanza il talento di Rooney, già individuato a 16 anni con sei gol in 33 partite nel suo primo campionato, non si è mai spanato. Semmai certi giocatori in certi ruoli semplicemente si spremono, in campo si consumano, non c’entrano le escort dei vizi e l’alcol delle abitudini. Le statistiche dei cannonieri della Premier sono il risultato di una concorrenza feroce: a tanti suoi colleghi la straordinarietà degli exploit, a Rooney la continuità, e infatti mai un titolo da capocannoniere, mai la scarpa d’oro. Non è stato difficile e complicato giocargli accanto, chiedere anche a Carlos Tévez, c’era anche un altruismo fisico nel gioco di Rooney. Solo che la continuità nel suo ruolo e con le sue caratteristiche ha avuto un prezzo alto. In una sera d’estate in piazza a Barcellona su di un maxischermo per la finale di Champions League 2011 ho visto Rooney in attacco da solo contro tutta la difesa di Guardiola, una sproporzione numerica a cui aveva dovuto abituarsi nel post Ronaldo e pre Van Persie, come ricorda Nick Hornby in Shakespeare scriveva per soldi. Riuscì a segnare di prepotenza il gol del momentaneo pareggio, ma oltre a Messi gli spagnoli in campo erano nel pieno della golden age, tra Europei e Mondiali, e furono spietati. In panchina c’era ancora l’ex operaio scozzese socialista diventato baronetto, cioè Alex Ferguson, di cui Rooney è stato uno degli ultimi giovani scudieri, fino all’addio di cui ha molto risentito, come tutto lo United.

Wayne Rooney ha giocato 120 partite con la Nazionale inglese, una cifra che ne fa secondo giocatore più presente della storia; la prima gara risale al febbraio 2003, quando non aveva ancora compiuti 18 anni, mentre l’ultima è un’amichevole contro gli Stati Uniti del 2018, una specie di Tribute Match (Ben Radford/Getty Images)

Personalmente non l’ho mai visto giocare dal vivo. Nel campionato italiano non si è mai affacciato. Perché? A memoria non ricordo ci sia mai stato un rimpianto per il mancato arrivo in Serie A di Alan Shearer, il nome che lo precede nella statistica assoluta dei cannonieri della Premier. Forse perché erano gli anni in cui nel campionato italiano giocavano i migliori stranieri del mondo, o quelli che sarebbero poi diventati tali. Forse perché le inglesi non erano ancora ai livelli della metà degli anni 2000. E Rooney? A quante squadre italiane avrebbero fatto comodo invece un più moderno e completo Wayne Rooney? Quante squadre hanno almeno cercato un profilo del genere? E quante lo hanno cercato invano nel bacino italiano? Forse a dispetto del carisma e dei numeri non c’è mai stato in Italia, negli addetti ai lavori, un desiderio-Rooney: fin troppo inglese, nato a Liverpool, esploso nell’Everton e consacrato a Manchester. Non è un caso che in Italia vennero invece David Beckham e Paul Ince, «tutti e due di Londra e appunto un po’ fighetti», così li aveva bollati Ferguson.

Infatti Rooney in mutande Emporio Armani e look metrosexual non lo abbiamo mai visto. Invece: bambinone energico, petto in fuori, figlio della working class, rossiccio, lentiggini, denti piccoli e orecchie grandi, capelli corti schiacciati, sempre bagnati di sudore, una fatica che però non era redenzione né ostentazione del sacrificio, nulla di esportabile fuori dal campo né Oltremanica, soltanto football, tutto consumato giocando. E quindi è rimasto ai nostri occhi una figura inglese, cioè in fondo isolana, staccata. Un po’ come per noi le unità di misura britanniche (once, pollici, miglia): scomode, diverse, forse incompatibili. Ma al contrario del detto “nemo propheta in patria”, lui, forse per fortuna, ha giocato e vinto solo nella sua terra – a parte l’appendice americana al DC United, tra il 2018 e il 2019. Sta tutta qui la potente e straordinaria epopea Rooney.

Molti giocatori hanno visto in questi anni rovesciato inconsapevolmente il proprio destino sportivo grazie a una giocata del loro repertorio diventata virale, replicata da Instagram a Tik-Tok, diventata gif per Twitter, video per Facebook e Youtube. Basta un gol particolare dentro pochi secondi a rilanciare nell’eternità pezzi di carriere sparse, lampi di stagioni estemporanee, personaggi persi nell’hard disk sempre più fitto del calcio. Ma intorno alla celebre rovesciata di Rooney nel derby contro il City del febbraio 2011 c’è una carriera lunga, piena, riconosciuta. È diventata iconica per lui come la rovesciata di Parola è diventata il marchio delle figurine Panini – anche se Rooney gli preferisce un colpo di testa altrettanto difficile contro il Wigan, nel 2009. Ma è iconica anche per tutta la Premier. Basta paragonarla a un gol in uno stesso derby di qualche anno prima, agosto 2007, vinto però dal City. Lo spettacolare esterno estivo di Geovanni suona come “oggi me lo concedo anche se nessuno me lo ha chiesto”, è la dimostrazione un po’ virtuosa di saperlo fare, una magia a costo zero. Mentre nel gesto invernale di Rooney, nel bel mezzo della stagione, c’è l’urgenza di dover arpionare in qualche modo un pallone che pesa in una partita importante, col brivido, il rischio, di sbagliare davanti a tutti. Non c’è un gol dove Wayne Rooney non si sia preso una responsabilità.