André Villas-Boas si è sabotato da solo

Il suo fallimento non sta nei risultati negativi, ma nel modo in cui li ha gestiti.

L’essenza di André Villas-Boas si può comprendere bene guardando tra le pieghe dell’ultima conferenza stampa all’Olympique Marsiglia, quella in cui ha annunciato le dimissioni. Nel suo monologo, l’allenatore portoghese dice che lasciare il suo posto di lavoro è stata una scelta impulsiva, presa quella mattina stessa, pochi minuti prima di presentarsi di fronte ai giornalisti; chiarisce che la sua decisione è dovuta all’acquisto, da parte della società, di un giocatore a lui non gradito – nella fattispecie si tratta di Jules Olivier Ntcham, ex di Celtic e Genoa. Mentre racconta tutto questo, mentre spiega che «qualcosa si è rotto», quando annuncia al mondo di non voler «nulla dal Marsiglia, neanche i soldi», Villas-Boas ha lo sguardo stranito, il volto contrito, una postura dimessa – per gran parte della conferenza ha parlato con l’indice e il medio della mano sinistra poggiati sulla guancia, come se volesse reggersi la testa. Sono tutti accorgimenti scenici, piccoli trucchi usati per spostare l’attenzione da quello che è successo – un club e un allenatore che, semplicemente, divorziano per divergenza di vedute – e per rendere spettacolare quello che resta un fallimento a tutti gli effetti. Un fallimento che è ovviamente del Marsiglia, ma è anche di Villas-Boas.

Questo è André Villas-Boas in purezza: un allenatore ma anche un uomo che non arretra mai, che punta su se stesso e rilancia costantemente. Lo fa da sempre, lo fa senza pudore, come se sentisse di godere di un credito illimitato. Lo ha fatto quando le cose sono andate bene, ma anche quando sono andate male. La sensazione è che questo atteggiamento sia nato come dispositivo di autodifesa, un’armatura che Villas-Boas si è costruito addosso per poter sostenere il peso enorme delle aspettative che lui stesso ha generato. È sempre stato presentato con parole pompose, partendo da aneddoti grandiosi: quello per cui lui era ancora un adolescente ed entrò nello staff del Porto dopo aver lasciato una lettera piena di consigli tattici al suo vicino di casa Bobby Robson, allenatore del Dragões; quello per cui a 21 anni divenne Commissario Tecnico delle Isole Vergini Britanniche, fregando la Federcalcio locale sulla sua età; quello per cui era l’erede designato di José Mourinho, un po’ perché hanno collaborato per tanti anni, e poi perché sembrava dovesse essere proprio così – tra l’altro nel corso di un’era in cui molti allenatori portoghesi, tutti diversissimi tra loro, si sono ritrovati a essere protagonisti del calcio europeo.

Nulla di falso o di gonfiato ad arte, è tutto vero e documentato. Ma questo non significa che si tratti di un passato facile da gestire, ricco com’è di etichette facili, di retaggi impegnativi. Per sopravvivere, allora, Villas-Boas ha scelto di essere un allenatore molto teatrale, un professionista pieno di sé nell’approccio al gioco ma anche nelle interazioni con la stampa. Come Mourinho, verrebbe da dire subito, se non fosse che AVB fonda la sua boria non tanto sul carisma, piuttosto sulla pura conoscenza tattica. E forse si tratta di una strategia ancora più pericolosa, più spocchiosa, rispetto a quella del suo mentore. Quando nel 2009, ad appena 31 anni, diventa allenatore dell’Académica de Coimbra, dice che «l’età non conta, sono stato scelto per le mie doti». Dopo una buonissima stagione, viene assunto dal Porto e si presenta così: «Io non sono il clone di Mourinho, sono qui per lasciare il mio segno nella storia di questo club». In effetti va proprio in questo modo: il Porto 2010/11 vince 49 partite su 58, tre competizioni su quattro, è una squadra spettacolare e moderna; Villas-Boas dimostra di avere davvero delle doti tecniche non comuni, le sue parole autocelebrative sono verificate sul campo, del resto non possono esserci dubbi su un tecnico in grado di vincere un trofeo europeo a 34 anni ancora da compiere – mai nessuno, prima di lui, ci era riuscito così presto.

Questa retorica del proprio talento, però, comporta un inevitabile rischio: può perdere di senso, e diventare anche un po’ antipatica, se poi questo talento si smarrisce, se non è più abbastanza, se non riesce più a determinare i risultati. È andata così a partire dall’esperienza al Chelsea: nel primo incontro con i giornalisti, nell’estate 2011, Villas-Boas dice che «la cosa più importante è riuscire a giudicare la competenza: chi è stato in questo club ha vinto tantissimo e noi lo rispettiamo, ma non c’è niente di strano nel voler cambiare le cose. E io sono qui, sono stato scelto per questo». Dopo cinque sconfitte nelle prime 19 partite, il peggior inizio di sempre per un manager dei Blues durante l’era-Abramovich, dice ai giornalisti che «bisogna insistere sul lavoro tattico che abbiamo fatto finora» nonostante qualcuno insinui che i giocatori più anziani della squadra abbiano sollevato delle perplessità sul suo approccio al gioco, sui suoi metodi; inoltre, risponde «non ho bisogno di nessuno, ho fiducia in me stesso, nel mio staff e nei miei giocatori» quando gli chiedono cosa ne pensa di un possibile arrivo di Guus Hiddink – uomo di fiducia di Abramovich – come tutor. Pochi mesi dopo, quando è già stato esonerato, il Chelsea ha vinto la Champions League e lui ha accettato un’offerta per allenare il Tottenham, dice che «il licenziamento come manager del Chelsea mi ha reso una persona e un allenatore migliore»; qualche anno dopo, ammetterà che «la scelta di andare al Chelsea è stata prematura, ero troppo giovane, tropo convinto dei miei principi e non sufficientemente flessibile»; ma aggiunge anche che «a tradirmi furono i giocatori, sono stato maltrattato da tutti, come ammesso pubblicamente da Ashley Cole».

Il confine tra consapevolezza, presunzione e incapacità di assumersi le proprie responsabilità è sottilissimo, e Villas-Boas dà costantemente l’impressione di superarlo. O di ignorarlo. Non a caso, quando viene scelto dal Tottenham come successore di Harry Redknapp, il Guardian scrive che «dovrebbe dimostrare maggiore umiltà se vuole avere successo a White Hart Lane». Dopo un avvio promettente, il Tottenham finisce al quinto posto in classifica, quindi fallisce la qualificazione in Champions League, e non va oltre i quarti di finale in Europa League. Villas-Boas viene confermato, ma poi gli Spurs lo esonerano a dicembre 2013. Dopo il suo addio, proprio il Guardian scrive che «il tecnico portoghese è stato l’artefice del suo stesso declino», e che «è stato testardo, riluttante ad adattarsi a ciò di cui il Tottenham aveva bisogno». Per tutta risposta, Villas-Boas ha sempre sostenuto che «in Inghilterra non si concede agli allenatori il giusto tempo per lavorare, per lasciare la propria impronta. Si dà troppo risalto ai risultati nel breve periodo, non al processo di crescita». Ma ovviamente è anche colpa di un complotto, di ingerenze altrui: «Il mio posto al Tottenham è stato preso da Sherwood, che io non volevo entrasse nel mio staff. Quando è arrivato, si è creata subito una frattura tra manager e spogliatoio».

Nella sua carriera, Villas-Boas ha vinto sette trofei: i quattro conquistati con il Porto nel 2011, e poi un Campionato, una Coppa nazionale e una Supercoppa con lo Zenit San Pietroburgo (Robert Cianflone/Getty Images for FA Premier League)

Quando annuncia l’addio allo Zenit dopo due stagioni e mezza, un successo nel campionato russo e tre eliminazioni ai gironi di Champions League, dice di non aver voluto rinnovare il contratto «perché il percorso di miglioramento che avevamo in mente per il club non si è consolidato». Nel corso della sua unica annata allo Shanghai SIPG, viene molto criticato per non aver vinto nulla nonostante avesse in squadra Hulk e Oscar, inoltre subisce una squalifica di otto giornate per insulti all’arbitro durante una gara contro il Beijing Guoan. Lascia la Cina per partecipare alla Dakar 2018, alla guida di una Toyota Hilux, ma si ritira dalla gara alla quinta tappa, a causa di un infortunio. Dopo diciotto mesi senza squadra, accetta l’offerta del Marsiglia. La prima stagione è molto positiva, poi però il progetto implode: il Marsiglia esce dalla Champions League in maniera netta, ma è anche vittima di una profonda crisi finanziaria, quindi il crollo dell’inverno 2020 – sei sconfitte in nove gare dal 16 dicembre fino all’addio di qualche giorno fa – non è da addebitare tutto a Villas-Boas. Solo che, nel frattempo, il tecnico portoghese inizia ad avere un atteggiamento provocatorio, per non dire ostile, nei confronti del suo stesso club: dopo l’eliminazione europea dice che al Marsiglia «produciamo solo merda», poi alla presentazione di Milik scherza in maniera goffa su un suo possibile esonero. Inevitabile che, nel testo del comunicato ufficiale relativo al suo licenziamento, l’OM adduca come motivazione «la ripetizione di azioni e atteggiamenti che danneggiano la società e i suoi dipendenti, in particolare il nostro Chief Football Officer Pablo Longoria».

È evidente come il fallimento di Villas-Boas non vada ricercato nei suoi risultati negativi, piuttosto nelle sue reazioni: in dieci anni, non ha aggiunto nulla di rilevante al suo palmarés, al suo profilo come allenatore, eppure ha continuato a rifinire il suo personaggio, l’idea che ha sempre avuto di sé, vale a dire quella di un tecnico-pedagogo, un insegnante di calcio che ha bisogno di tempo, degli stimoli e degli uomini giusti, per poter lavorare bene. E che non ha nessuna colpa, o quasi, se non riesce a trovare tutto questo. È una visione che fa torto al suo stesso talento: Villas-Boas è stato un fenomeno di precocità ma anche di velocità, alla vigilia della sua terza stagione da allenatore professionista aveva già guidato due squadre di prima divisione e una Nazionale, aveva vinto quattro trofei ed era in procinto di diventare manager del Chelsea. Ecco, probabilmente è stato vittima proprio di questo, di un mito che l’ha travolto troppo presto, e che lui ha preferito alimentare piuttosto che demistificare. Inizialmente potrebbe averlo fatto solo per difendersi, ma quel tempo è molto lontano. Quel che resta oggi è la teatralità malinconica di un allenatore che ha smesso di vincere ma sembra non accorgersene, i cui strumenti retorici non funzionano più, perché ciò che lo aveva reso speciale per un po’ è evaporato. E intanto lui cercava un modo per dire agli altri come si gioca a calcio, come si devono costruire progetti vincenti, mentre i suoi progetti non riuscivano a esserlo.