La partita più importante della prima giornata di Bundesliga 2020/21 è stata il Borussen Derby, la sfida tra il Dortmund e il Mönchengladbach. La squadra giallonera ha vinto per 3-0, poche ore dopo la Zeit ha scritto che «a vent’anni sei già un vecchietto, per il BvB». È una lettura vera a metà: nell’undici titolare scelto dall’allenatore Lucien Favre c’erano infatti due 31enni, Mats Hummels e Axel Witsel, e due 29enni, Roman Bürki e Thomas Meunier. Allo stesso tempo, però, le vere stelle del Dortmund erano due giocatori nati nel 2000, Jadon Sancho ed Erling Haaland, autore di una doppietta. E poi in campo c’erano già i loro eredi, non tanto per il loro ruolo o per le loro caratteristiche tecniche, ma perché sono considerati fuoriclasse del futuro, perché hanno un talento enorme, dei margini di crescita spaventosi e sono già riconoscibili sul palcoscenico internazionale. Si tratta di Gio Reyna, che ha realizzato il terzo gol del Borussia, e di Jude Bellingham. Entrambi sono nati nel 2002, entrambi non hanno ancora compiuto 18 anni, quindi hanno iniziato questa stagione quando erano ancora minorenni per il diritto civile tedesco e italiano.
Certo, il Borussia Dortmund è un caso limite, è un club che da molti anni costruisce il suo organico proiettandosi in un futuro remoto, esasperando una politica ciclica di reclutamento e lancio e sviluppo di calciatori giovanissimi – al punto che il Guardian, poche settimane prima, si è chiesto se il club tedesco debba essere considerato «una società sportiva virtuosa oppure una fredda linea di produzione industriale, che non vince più trofei di rilievo e in cui i calciatori sono semplicemente di passaggio, degli asset da valorizzare». La realtà è che il Borussia Dortmund ha colto e interpretato prima di tutti alcuni segnali del calcio contemporaneo, così si è ritrovato a essere in anticipo sul percorso, ha ideato e attuato un sistema che ha influenzato tanti altri club, anche di fascia più alta. Quali sono questi segnali? Il primo riguarda la durata della carriera di un calciatore, soprattutto ai massimi livelli: oggi i grandi talenti si rivelano e si impongono prima rispetto al passato; inoltre questa dilatazione temporale esiste anche nell’altra direzione, per cui i calciatori dell’era moderna non solo si affermano in squadre di prima grandezza quando sono ancora molto giovani, ma poi continuano a giocare – e a mantenere alti standard di rendimento – fino a 35 anni, a volte anche di più. L’altro cambiamento letto dal Dortmund riguarda la stratificazione economica tra i club, decisamente più accentuata rispetto a pochi anni fa: per la grande maggioranza delle società, anche quelle che partecipano regolarmente alla Champions League, oggi è diventato proibitivo acquistare e/o mantenere in rosa i giocatori più forti quando sono nel loro prime tecnico e fisico, cioè tra i 23 e i 30 anni. In virtù di tutto questo, gli operatori di mercato sono stati costretti a cambiare le proprie strategie, hanno dovuto concentrare i propri sforzi per scovare e comprare i giocatori che si trovano in una fascia d’età più accessibile e sostenibile sul lungo periodo: quella dei teenager tra i 16 e 19 anni.
Il Borussia, come detto, è un caso limite ma pure molto esplicativo: negli ultimi otto anni, il modello di scouting e sviluppo del talento messo a punto dal club tedesco ha fruttato un incasso di 300 milioni di euro per la cessione di calciatori acquistati quando ancora non avevano compiuto vent’anni. Si tratta di una cifra molto parziale, considerando che anche Sancho e Haaland, prima o poi, entreranno a far parte di questo gruppo – si sono trasferiti a Dortmund quando avevano 17 e 19 anni, rispettivamente, e oggi sono tra i giocatori più costosi al mondo. Ovviamente questa tendenza si è affermata oltre il feudo illuminato dello Strobelallee Training Centre, il centro di allenamento del Borussia che sorge a poche centinaia di metri dal Signal Iduna Park: nei cinque campionati europei più importanti, l’età media del primo trasferimento all’estero è scesa da 23,2 anni a 21,1 anni tra il 2005 e il 2015; le otto operazioni più onerose della storia per giocatori under 20 – dai 145 milioni investiti dal Psg per il 19enne Mbappé nel 2018, fino ai 37,5 milioni spesi dal Manchester United per il 18enne Luke Shaw nel 2014 – sono state concluse tutte negli ultimi sei anni.
Nel primo turno di Liga, il Real Madrid ha affrontato la Real Sociedad. Zinédine Zidane, tecnico dei blancos, ha schierato Martin Odegaard dal primo minuto. Per il 21enne norvegese è stata la prima partita da titolare in campionato con la squadra della capitale spagnola, che l’aveva acquistato dallo Strømsgodset a gennaio 2015, quando aveva compiuto 16 anni da pochi giorni. Fu, all’epoca, un trasferimento storico, se ne parlò tantissimo, e in effetti rappresentò l’inizio di una nuova era per il Real Madrid, che da allora ha iniziato ad applicare con costanza un modello di reclutamento simile a quello del Borussia Dortmund, per cui la maggior parte delle operazioni di mercato in entrata hanno coinvolto giocatori giovanissimi – anzi, «i talenti più promettenti di tutto il mondo», come ha spiegato Florentino Pérez nel corso della sua campagna di propaganda per le elezioni del 2017. In realtà il primo grande affare per un teenager fu l’acquisto di Raphaël Varane nel 2011, durante l’era-Mourinho: il Real versò dieci milioni di euro al Lens, un club di terza o forse anche quarta fascia nel panorama europeo, per un difensore centrale che allora aveva 18 anni e che metteva insieme solo 24 partite da professionista. È come se il successo dell’operazione-Varane avesse spinto il Real a insistere in quella direzione: dopo l’arrivo del francese e di Odegaard, il Madrid ha acquistato anche Theo Hernández, Marco Asensio, Federico Valverde, Rodrygo, Vinícius Júnior, tutti calciatori under 20 inseriti gradualmente nelle rotazioni della prima squadra; e poi sono stati messi sotto contratto anche Takefusa Kubo, Andriy Lunin, Brahim Díaz, Reinier, asset tecnici ed economici mandati a maturare in altre società, spagnole e/o europee.
Questo elenco di operazioni costruito negli ultimi anni, peraltro da uno dei club più prestigiosi del mondo, evidenzia la trasformazione in atto, un cambiamento talmente profondo che va oltre la tendenza di mercato, che finisce per modificare le strategie, la cultura stessa delle società di calcio: oggi anche il Real Madrid, il Liverpool, il Bayern Monaco non possono più limitarsi ad acquistare calciatori già formati, devono avere un reparto scouting in grado di intercettare dei talenti molto precoci in tutte le competizioni del mondo. È una condizione che rende molto più vasto e complesso il lavoro degli osservatori, a livello geografico e anche di concorrenza: se prima alcune società medio-borghesi del panorama europeo fungevano da hub per i giovani più talentuosi, ora i top club devono scandagliare tutti i circuiti di mercato, anche quelli più “esotici”. Il Bayern Monaco, per esempio, ha acquistato Alphonso Davies direttamente dalla MLS per 18 milioni di euro, la cifra più alta mai incassata da una franchigia della lega americana; il terzino canadese si è trasferito in Germania poche settimane dopo il suo 18esimo compleanno e un anno e mezzo dopo ha vinto la Champions League da protagonista. L’osservatore di un club classificato nelle prime sei posizioni di Premier League raccontò anonimamente, in un articolo pubblicato da The Athletic durante il lockdown, dell’ultimo incarico ricevuto: visionare le partite delle prime tre divisioni professionistiche e giovanili della J-League, il campionato giapponese, facendo particolare attenzione ai giocatori e alle squadre Under 20.
È evidente come lo scenario sia completamente diverso rispetto a pochi anni fa, anche perché è cambiato il mondo intorno al calcio: le tecnologie di connessione e di archiviazione dei dati hanno favorito la nascita e la sviluppo di nuovi strumenti multimediali per lo scouting calcistico. Oggi piattaforme come WyScout, SciSports e Analytics FC sono strumenti fondamentali per gli operatori di mercato, per club e agenti, perché offrono in tempo reale un report statistico molto accurato delle doti di un calciatore, indipendentemente dalla sua nazionalità, dalla sua età. In questo modo i tempi e gli spazi si comprimono, anzi vengono cancellati, è come se la lista di potenziali campioni da visionare coprisse il mondo intero, come se l’intero multiverso del calcio fosse raccolto e in un database “fisso”, virtuale e di facile consultazione, un po’ come quello di Football Manager – quando in realtà il calcio è un ambiente dinamico, in continua evoluzione. L’aumento della domanda e l’abbattimento dei confini geografici hanno innescato anche un’inevitabile crescita dei prezzi: il Real Madrid, infatti, ha acquistato Odegaard per 2,8 milioni di euro a gennaio 2015, una cifra leggermente inferiore a quella investita per rilevare il cartellino di Asensio dal Maiorca pochi mesi dopo (3,5 milioni); per comprare Vinícius Júnior, Rodrygo e Reinier, il club di Florentino Pérez ha speso 120 milioni di euro negli ultimi due anni. Anche società meno ricche hanno dovuto adattarsi a queste nuove condizioni economiche: il Wolverhampton, poche settimane fa, ha versato 40 milioni di euro al Porto per acquistare Fábio Silva, attaccante classe 2002 che prima di trasferirsi in Inghilterra ha messo insieme poco più di 500’ di gioco con la prima squadra dei Dragões in partite ufficiali.
Tutte queste evidenze statistiche spiegano perché il calcio contemporaneo stia offrendo uno spazio sempre maggiore ai teenager, anche ai massimi livelli. Si tratta di una strategia finanziaria vincente o comunque a basso rischio, sostenibile, soprattutto se proiettata nel lungo periodo: un giovane talento ha un prezzo di mercato più basso rispetto a un giocatore già formato, mentre la valorizzazione di un atleta allevato nel proprio ha un costo iniziale praticamente nullo; lo sviluppo di questi giocatori può generare un indotto tecnico immediato, e poi un profitto economico enorme nel futuro. Non è un caso, dunque, che il minutaggio concesso ai giocatori Under 21 nelle cinque grandi leghe europee sia aumentato molto, in Premier League è praticamente raddoppiato (dal 4,45% al 8,5%) negli ultimi sette anni; non è un caso, dunque, che Xavi Simons passi dal Barcellona al Psg e sia una celebrità molto prima del suo esordio da professionista, che il Liverpool spenda sette milioni di sterline per acquistare Harvey Elliott, il giocatore più giovane ad aver mai esordito in Premier League; non è un caso, infine, se stiamo vivendo un’era in cui i tecnici non si fanno problemi quando si tratta di schierare un portiere ancora adolescente come Donnarumma, difensori centrali appena maggiorenni come Saliba e Fofana, registi di centrocampo tra i 16 e i 17 anni come Camavinga e Bellingham, attaccanti teenager come Mbappé, Sancho, Ansu Fati, Greenwood. La legge del mercato e del talento ha forzato ogni confine, oggi non esistono più ruoli e compiti tattici che si possono affidare solo a giocatori d’esperienza, non ci sono più attese e gerarchie da rispettare, apprendistati da concludere, neanche nei club più importanti. I giocatori forti vanno in campo, non importa quanti anni abbiano. Ma se ne hanno pochi, o addirittura pochissimi, è ancora meglio.