Nel momento in cui terminò il suo contratto con il Marsiglia, André-Pierre Gignac aveva appena finito una stagione con 21 gol segnati in Ligue 1, più di Ibrahimović e Cavani. Era l’estate 2015 e l’OM di Marcelo Bielsa aveva chiuso il campionato al quarto posto, dopo di un girone d’andata da titolo e un girone di ritorno quasi da retrocessione. Rod Fanni, allora terzino del Marsiglia, ha raccontato che in quei mesi l’ambiente era turbato: il problema non erano solo le difficoltà economiche che avrebbero spinto il club ad arrendersi e lasciar partire i suoi migliori giocatori – Payet, Imbula e Thauvin sarebbero stati tutti ceduti in estate, mentre con André Ayew e lo stesso Gignac non fu trovato un accordo per rinnovare il contratto – ma anche un clima di tensione e diffidenza tra la squadra e alcuni dirigenti che, secondo Fanni, da tempo non rispettavano le promesse fatte. Nel giro di pochi mesi la rosa venne smantellata, Bielsa si dimise dopo la prima giornata del campionato successivo e la stagione dell’OM fu un lento naufragio fino al tredicesimo posto.
Gignac è nato a Martigues, a 40 km da Marsiglia, da una famiglia di ascendenze gitane, è cresciuto a stretto contatto con la comunità manouche della città e tifa OM da quando ha memoria. Il legame fra lui, Marsiglia e l’OM è stato intenso e doloroso. Lucas Hernández, il difensore marsigliese del Bayern, ha raccontato che in città tutti i bambini sognavano la sua maglia e il suo autografo. Per essere riconosciuto come idolo della sua tifoseria, però, Gignac ha dovuto prima passare attraverso il momento più difficile della sua carriera, ovvero i primi due anni con la maglia dell’OM. Aveva 25 anni e sembrava già un atleta inadatto, imbolsito, per non dire sovrappeso; un calciatore incagliato in un punto morto, che dopo due stagioni intere era riuscito a segnare in totale nove gol. In ogni stadio, i tifosi avversari lo beffavano cantando “un Big Mac pour Gignac”, mentre Didier Deschamps, il suo allenatore, pregava il suo agente di trovargli un’altra punta – «chiunque, basta che non sia Gignac». Due anni prima aveva giocato un Mondiale, quattro anni prima aveva segnato 24 gol in Ligue 1 con il Tolosa. Insomma, aveva toccato il fondo e poteva solo risalire.
Nelle due stagioni successive, infatti, segnò 13 e 18 gol, e nella terza toccò l’apice: Marcelo Bielsa lo mise al centro del suo sistema offensivo, lo costrinse a perdere sei chili, lo portò dentro il suo metodo e, come al solito, ne fece uscire un giocatore migliore. Quando il suo contratto con l’OM terminò, Gignac aveva 29 anni ed era tornato ad essere un attaccante costante e forte, perfettamente in grado di competere ad alti livelli. Sarebbe stato scontato aspettarsi un altro ingaggio nell’alta Ligue 1, o un ruolo da protagonista nella classe medio-alta di un qualsiasi campionato top europeo. Invece scelse di firmare con il Tigres di San Nicolás de los Garza, squadra del campionato messicano.
L’impatto di Gignac sul calcio messicano è stato brutale e, forse, la sorpresa più grande è che non ci siano state sorprese: mentre il contemporaneo ritorno di Tévez al Boca Juniors è stato la più grossa dimostrazione pratica di quanto non basti calare dall’alto un giocatore sovradimensionato rispetto al contesto – nemmeno se si tratta del trascinatore di una squadra finalista in Champions League – per generare l’effetto sperato, il centravanti francese ha fatto esattamente ciò che ci si aspettava. Infatti, nel giro di cinque anni è diventato il giocatore europeo ad aver segnato più gol nella storia del calcio messicano, oltre che il miglior marcatore della storia del Tigres.
Provare a immaginarne la ragione di questo trionfo ci porta di nuovo a Tévez, e alla mastodontica armatura di narrazioni, pressioni, unicità del contesto e contingenze che lo ha trascinato a picco, fino a deludere le aspettative. Il Tigres di quel momento, invece, sembrava essere il contesto ideale per imporre i valori senza l’attrito delle circostanze. In Messico, solo quattro squadre sono tradizionalmente considerate delle grandi: Club América, Chivas, Cruz Azul e Pumas. Questa gerarchia in realtà è superata da un contesto fluido, in cui alla ristretta aristocrazia si aggiungono – e in alcuni casi si fondono – club legati ai colossi economici privati messicani. Tra questi c’è il Tigres, che a metà anni Novanta era una squadra molto amata ma con poche glorie alle spalle, gestita dall’Universidad Autonoma de Nuevo León. Poi però ha iniziato a essere finanziata dalla Cemex, una multinzionale dell’edilizia che produce e distribuisce cemento e calcestruzzo, e che l’ha reso è una sorta di Paris Saint-Germain regiomontano. La spinta di una proprietà potentissima sta provando a far diventare il Tigres sempre più forte, sempre più grande, fino a espandere il brand anche negli Stati Uniti. La tifoseria è numerosa e appassionata, ma resta ancora poco esigente, non come quelle delle squadre storiche: quando nel 2018 gli auriazules, con una rosa da favorita, vennero eliminati ai quarti di finale di Concacaf Champions League dal Toronto, i tifosi applaudirono ugualmente la squadra e alcuni giornali messicani si chiesero se questo livello di ambizione fosse effettivamente in linea con la dimensione di “quinta grande” che sta perseguendo la società.
Gignac, quindi, si è ritrovato ad essere il miglior calciatore di una delle squadre più forti del continente, senza tutte le pressioni che avrebbe avuto in altre circostanze. Allo stesso tempo, però, ha trovato un ambiente vivo e stimolante, capace di rispondere alla sua esigenza di sentirsi sempre parte del contesto in cui si trova. Marcelo Bielsa ha descritto Gignac con delle parole bellissime, che si riferiscono al rapporto unico tra lui e Marsiglia, ma potrebbero raccontare ugualmente bene il legame che negli ultimi cinque anni ha costruito con il Tigres, con Monterrey, con il Nuevo León e con il Messico: «André-Pierre contagia, trasmette, vibra, emoziona il tifoso. E si appassiona nel farlo. Affronta la realtà sapendo di non poterla superare senza prima conoscerla. Somiglia alla città e l’Olympique glielo riconosce e lo ama. Sono della stessa razza, trasformano la ribellione in grandezza». È un universo che non ha nulla a che vedere con la solitudine delle stelle delle squadre del Golfo Arabo o della Cina, con la freddezza in cui si immergono molti calciatori che vanno all’estero: Gignac non pone nessun tipo di difesa tra sé e l’ambiente, come se si trattasse della sua comunità manouche o di Marsiglia. Lo si nota tanto dal rapporto viscerale con i tifosi, che lo idolatrano e a cui ha persino dedicato un gol in Nazionale, quanto dal suo modo di rapportarsi con la realtà locale e dalla decisione di ottenere la cittadinanza messicana non appena è stato possibile.
Questa forma di rispetto si trasmette anche nel suo modo di rapportarsi al Messico inteso come calcistico, nella convinzione di essersi migliorato proprio perché trasferitosi lontano dall’Europa. In un’intervista a France Football dopo il primo anno al Tigres, ha dichiarato: «In Messico il livello è alto e richiede impegno. Ho imparato a migliorare negli spazi stretti, a essere più preciso nel controllo e nei fondamentali. Nelle ultime partite con la Nazionale francese non ho perso quasi nessun pallone. Sono diventato più abile nel mio gioco». Era il 2016, e grazie alla sua prima stagione mostruosa il ct della Francia decise di portarlo agli Europei, in un momento in cui le alternative erano molte. Quel ct era Didier Deschamps.
Scegliendo il Tigres, André-Pierre Gignac non ha soltanto messo nelle mani di una squadra messicana una potenza di fuoco unica in un certo scenario, ma ha anche messo ordine alla sua carriera nella maniera più rischiosa e controintuitiva. Quello che per il movimento messicano è stato un trasferimento storico – nel contesto di un campionato che ha già smesso di essere il buen retiro di leggende a fine carriera come Eusébio, Guardiola e Butragueño, ma che è ancora una meta considerata molto timidamente dai calciatori europei – per il Tigres è stato un momento storico. Anzi, forse è stato l’evento che verrà ricordato come il capitolo chiave del mito fondativo del Tigres di élite: quattro dei suoi sette campionati vinti sono arrivati con Gignac in campo. È del francese anche il gol che ha deciso l’ultima finale di Concachampions contro il Club América, la prima storica vittoria nel Tigres nel torneo continentale, dopo tre finali (quattro, contando quella di Copa Libertadores contro il River Plate nel 2015) perse in cinque anni.
In ogni momento della storia recente del Tigres, c’è il segno di André-Pierre Gignac, che sia un gol decisivo, come quello segnato contro il Palmeiras, o una rete inutile, per cercare di piegare la direzione degli eventi, come i tanti segnati nelle finali perse. Allo stesso modo, i picchi dei suoi ultimi cinque anni di carriera sarebbero stati quasi impensabili, lontano dal Messico. Se fosse rimasto dall’altra parte dell’Oceano, molto probabilmente non avrebbe giocato l’ultimo Europeo, né giocherebbe nelle prossime ore la finale del Mondiale per Club. Comunque vada, André-Pierre Gignac ha trasformato la ribellione in grandezza.